L’annus horribilis si è chiuso e le sue tragedie pare abbiano trovato un solo contraltare: l’impegno dei sanitari. “Medici eroi” è stato lo slogan che è ricorso in lungo e in largo, con cittadinanze onorarie, premi, menzioni, titoli, copertine ai medici del Covid, molto più di quanto era stato dedicato agli “eroi del fango” della nefasta inondazione di Firenze del ’66. Quanta gloria! E quanta gloria, emersa come una fiorire di minuscoli funghi nati dall’oggi al domani, che deve far riflettere. Già, perché questa “santificazione dei sanitari” cela invece due paure, due grandi paure.
La prima è la paura della morte, nella quale ci serve che qualcuno faccia da eroe, mostri una forza e un disinteresse sovrumano per garantirci che “tutto andrà bene!” (vi ricordate, il mantra del primo lockdown). Come diceva Bertold Brecht, “Sfortunato il popolo che ha bisogno di eroi”, perché significa che deleghiamo a Batman e Superman quello che non sappiamo o non possiamo fare; o che il grigiore della vita ha incartapecorito in noi. Avere degli angeli incarnati accanto ci consola nel terrore, ma è un solatium fragile e caduco perché in realtà anche i suddetti angeli hanno paura eccome. Solo che per un contingente effetto hanno trovato come fare quello che la loro vocazione di caregivers significava nel profondo: fare “il miglio in più” richiesto dal viandante che trovi affaticato. Ma questo tema, della reale paura della grande nemica, non lo ha voluto affrontare nessuno; era il leit-motif della pandemia, ma il tema è stato censurato, annacquato, rassicurato, divelto. Quindi interiorizzato, represso e reso più orrendo, se possibile. Ma la paura della morte è un tratto umano che il bambino impara verso i dieci anni di vita, che l’essere umano ha imparato dalla notte dei tempi. Ma non ci vogliamo pensare. E crediamo agli esorcismi, riducendo i grandi progressi scientifici a riti scaramantici, come se il vaccino non fosse solo un’arma efficace e buona contro un virus, ma un rituale apotropaico contro la morte.
La seconda paura è ancora più orribile: è quella di guardare a noi stessi e vederci paurosi, inetti e bisognosi di delegare ai “bravi” la nostra forza ormai persa nel lavoro routinario, nei protocolli cui deleghiamo le responsabilità. Allora nasce il bisogno di eroi, nelle cui mani rimettiamo le nostre responsabilità timide, i nostri destini atrofizzati, le nostre responsabilità impaurite. Il tratto distintivo di oggi è la mancanza di responsabilità, di presa coraggiosa d’atto che qualcosa nell’immediato del nostro lavoro, della nostra famiglia va fatto e farlo. Ma tutto tace a risvegliare questa presa d’atto e restiamo a “bouche bée”, imbambolati, capaci di attingere il “panem et circenses” che ci dà la società irresponsabilizzata, ma non di fare in realtà qualcosa. Crediamo di “fare”, ma in realtà non facciamo. E abbiamo paura di vedere questa realtà, di renderci conto che seguiamo la corrente, che siamo degli inetti esistenziali. La società di massa crea distrazioni di massa, ci fa sentire forti e attivi se gridiamo allo stadio o se passiamo di livello in un gioco della Play Station; ha abolito le differenze di classe perché oggi poveri e ricchi vogliono entrambi la stessa cosa: la tecnologia, il gioco, il pulsante da premere in una corsa ai beni posizionali che ti facciano sentire un passetto più in alto del vicino. Sotto questo c’è il vuoto; sotto questo vestito c’è il nulla. E la paura. E il bisogno di immedesimarsi nell’altro-coraggioso perché noi non lo sappiamo essere.
Fa bene a medici e infermieri questo clima di santificazione? Proprio no. Perché li idealizza e nasconde i loro veri problemi. In primo luogo quello della motivazione, anche loro ridotti nella routine di protocolli, burocrazia e procedure operative. Nasci con un “duende”, direbbero gli spagnoli, cioè con uno spiritello dentro che ti dice di fare grandi cose, con uno spirito dionisiaco che ti slancia verso l’alto e ti ritrovi nella hybris-orgoglio di sentirsi narcisisticamente superiori al malato o nella phthysis-consunzione di un lavoro insoddisfacente perché gli ospedali sono stati trasformati in aziende, i malati in clienti e i medici e gli infermieri in “operatori”, tutti legati al cartellino da timbrare. La luce per medici e infermieri viene dal fare le pulizie nella casa della sanità e riportarla semplice e linda alla schiettezza delle sue mura e dei suoi arredi essenziali. Riscoprire il rapporto di fiducia col paziente e uscire dal rapporto contrattualistico in cui la sanità è dare il massimo che può garantire il minimo impegno. Il rapporto di fiducia, il visitare, parlare, misurare: la parola “medico” viene dal latino “medeo” che significa “misuro”, prendo le misure cioè guardo, tocco, parlo, cosa difficile da capire dove un “effetto Suv” (sentirsi falsamente garantiti dalla tecnologia come dentro un Suv) spinge ad abbassare l’attenzione sulla persona, e ad affidare il rapporto di cura alle risposte del laboratorio prima che allo sguardo, alle mani, al tempo passato a conoscere, alla “care” del medico.
Che il 2021 porti a una svolta non è pensabile, ma può essere un’occasione per i singoli di pensare queste paure, farci i conti, decensurarle, aggredirle o socializzarle; e valorizzare nel giusto senso medici e infermieri, perché anche chi si prende cura degli altri ha bisogno di una cultura che si prenda cura di loro.