“Il Partito democratico ha una sola parola ed esprime un nome come possibile guida di un nuovo governo di cambiamento. Quello di Giuseppe Conte”.

È racchiusa in questa fase pronunciata da Nicola Zingaretti, quasi verso la fine della sua relazione alla direzione del Pd, la scelta politica che unitariamente ha assunto il gruppo dirigente Dem. Tutti, da Orlando a Franceschini, da Oddati a Guerini e Lotti hanno votato a favore, senza neanche aprire la discussione. Rimane il dissenso isolato del capogruppo al Senato Marcucci.



Non vi è nella relazione del segretario nulla che possa lasciare immaginare un repentino cambio di cavallo. E le ultime dichiarazioni di Renzi, ancora una volta in aperta rotta di collisione con Conte, hanno nel pomeriggio confermato agli uomini del Pd che non vi sono reali margini di ricomposizione.

La scelta di puntare su un Conte ter rimanda dunque al tema più scottante del rapporto tra Pd e Italia Viva. Siamo al “redde rationem”. Zingaretti ricorda i passaggi salienti di questi 18 mesi di collaborazione al governo, iniziati con la scissione e con la dichiarazione di guerra di “voler ridurre il Pd al 6% dei consensi”. Per questo non possiamo non avere, dichiara il segretario Dem, “legittimi fondati dubbi sulla affidabilità per il futuro”. In altre parole, non possiamo ripetere lo stesso errore di 18 mesi fa e riconsegnare a Renzi il potere di far cadere il governo in futuro, soprattutto alla vigilia del semestre bianco. Per il Pd si può discutere del rientro di Italia viva nella maggioranza, ma a condizione che accetti Conte e non sia determinante.



Appare difficile a questo punto che i tre principali partiti rimasti fedeli a Conte cambino posizione. Non si capisce per quale motivo dovrebbero cedere su un punto decisivo, cioè la tutela dell’uomo che rappresenta il valore aggiunto del futuro schieramento elettorale. Conte è popolare, Renzi no.

Altro passaggio saliente della relazione il saluto ai ministri uscenti. “Ringrazio la nostra delegazione al Governo che in questi mesi davvero drammatici e in condizioni politiche proibitive si sono fatti carico di contribuire” al lavoro di governo nell’interesse del paese. Un invito esplicito a preparare gli scatoloni. È bene che tutti abbiano chiaro che il Pd fa sul serio, è pronto a qualsiasi scenario, elezioni comprese.



Ai vertici del Pd risulta abbastanza chiaro che Italia viva nelle consultazioni con il Presidente della Repubblica non cederà sul nome di Conte. Di conseguenza se le forze che dispongono della maggioranza assoluta alla Camera e a cui mancano appena 4 voti per averla anche al Senato non recederanno dalla loro scelta, è molto probabilmente che venerdì Mattarella – sconfessando molte facili previsioni – non potrà consegnare al premier uscente neanche il mandato esplorativo. Ci sarà così un rapido precipitare della situazione verso l’unica scelta rimasta, quella di un governo tecnico che ci conduca al voto, appena possibile.

Contribuisce in modo determinante a questo scenario il male oscuro di cui è affetto questo parlamento: l’essere largamente non più rappresentativo, composto da un numero spropositato di personaggi in cerca di autore e refrattario a qualsiasi pur minima riforma.

Andiamo verso il voto anticipato fondamentalmente per questo grumo di questioni strutturali. Ma la responsabilità principale ricadrà su Renzi e la sua disperata scelta di sopravvivenza. Ricadrà anche un po’ su Conte, per aver ritardato l’apertura di un confronto programmatico per la fine della legislatura, ma ricadrà anche su chi, come i grandi giornali nazionali, pezzi di Confindustria, tanti autorevoli commentatori tv, ha pensato – innescando e sostenendo Renzi – che ci si potesse facilmente liberare di Conte e rimettere al suo posto qualche “salvatore della Patria”.

Se si vota si voterà con il Rosatellum. E ancora una volta i sondaggi non ci dicono la verità. È una partita molto aperta ed in gioco non ci sono i temi di due anni fa, c’è in gioco la fine della pandemia, l’Europa, la ripresa economica, la tutela dei più deboli. È venuto il momento di far parlare gli elettori, non ha senso tirare la corda ancora per molto.