La transizione ecologica è stato uno dei cavalli di battaglia della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen. Ma le decisioni della Ue, soprattutto quelle prese nell’ultimo anno sulla spinta del vicepresidente Frans Timmermans, fanno discutere. I provvedimenti sulle case da efficientare dal punto di vista energetico e sulla produzione dal 2035 delle sole auto elettriche (con l’eccezione di quelle alimentate a combustibile sintetico) hanno fatto sorgere più di un dubbio sulla loro fattibilità e sulle conseguenze che potranno avere in termini industriali e di occupazione.



L’obiettivo della sostenibiltà, spiega Massimiliano Salini, di Forza Italia, eurodeputato del Partito popolare europeo, è stato sostenuto nelle sue intenzioni iniziali dal Ppe, che poi però ha distinto la sua posizione di fronte agli eccessi normativi dell’ultimo periodo della legislatura, fino ad arrivare a criticare il Nature Restoration Law, sul ripristino delle aree naturali a scapito di quelle agricole. Il Ppe ora si appresta ad affrontare le elezioni del 2024 con nuove alleanze, ma partendo dall’adesione a un programma: la prossima Commissione europea potrebbe prevedere delle correzioni di rotta proprio sui provvedimenti della transizione green.



Dove si è inceppato il progetto dell’Unione Europea sulla transizione green?

A un certo punto c’è stato un cambio di atteggiamento della Commissione europea rispetto all’agenda del cosiddetto Green Deal, la transizione ecologica, che non ha aggiunto qualità alla battaglia sulla sostenibilità, ma una sorta di ansia da prestazione che si è tradotta in proposte sprovviste il più delle volte di un impact assestement reale. Spesso la valutazione di impatto formulata per giustificare la proposta è stata profondamente carente. C’è stata, a volte, una sorta di involuzione del contenuto delle proposte, che hanno cominciato ad assumere un aspetto esondante rispetto all’obiettivo iniziale condiviso dalla maggioranza, quello di garantire una sostenibilità solida dal punto di vista tecnico-ambientale ma anche dal punto di vista sociale, compatibile con il mantenimento in vita di un modello di sviluppo, quello europeo, che nei decenni si è rivelato quello più sostenibile.



La Commissione ha posto il tema della sostenibilità, ma poi nell’attuazione di questo principio si è un po’ persa?

In realtà la sostenibilità nell’agenda della vita sociale europea ci è entrata di prepotenza da molto tempo: le aziende da trent’anni lavorano per crescere da questo punto di vista. La Commissione ne ha preso atto. Il difetto si è verificato soprattutto nell’ultima fase della legislatura sul tema delle quote di carbonio per l’industria energetica, su tanti temi legati al Fit for 55, la Nature Restoration Law, il packaging, l’Euro 7, una serie di nuove proposte che contengono la coerenza all’agenda sulla sostenibilità ma con un livello crescente di esasperazione di questi obiettivi, in contraddizione anche con altri provvedimenti sulla stessa materia. La legge sulla natura votata recentemente entra in contraddizione con altri 23 progetti di rinaturazione favoriti dalla stessa Commissione tale da generare un dibattito intossicato e contraddittorio.

Quali sono le criticità che avete individuato nella Nature Restoration Law?

La norma si sovrappone ad altre norme che intervenivano sulla stessa materia. Il principale difetto è la ridondanza, che è il peggior nemico di chi vuole investire su un obiettivo come la sostenibilità. Avevamo già disciplinato il tema della biodiversità, dell’uso sostenibile del suono delle acque, dei fitosanitari, dei sistemi urbani e di altro ancora, materie trattate nella Nature Restoration Law e che avevano tutte ripetuti provvedimenti che le riguardavano. Questa esasperazione normativa si traduce in incertezza delle regole del gioco: l’effetto è di fare scappare dall’Europa soggetti pronti a investire nell’ambito industriale ed economico. C’è un pezzo di industria chimica tedesca che ha deciso di delocalizzare negli Usa scegliendo un ambiente in cui le regole durano un po’ più di un quarto d’ora.

La legge, che riduce le aree agricole a favore delle aree naturali da ripristinare, ha anche un impatto significativo sulle filiere agroalimentari, soprattutto ora che la guerra ha ridotto la produzione mondiale. Anche su questo aspetto esprimete delle perplessità?

La legge è stata scritta prima dello scoppio della guerra, che ha avuto un impatto devastante sulle materie prime agricole. Abbiamo chiesto un rifacimento della valutazione di impatto, ma la richiesta non è stata accolta. Ci sono stati emendamenti che hanno tolto alcune delle minacce relative al settore agricolo, ma alla luce del voto finale l’agricoltura non è così in salvo. Non c’è più l’articolo 9 (che prevedeva un 10% in più di ripristino naturale a scapito delle aree agricole, nda) ma rimangono gli articoli sui ripristini forestali, delle zone umide, delle torbiere, tutti ambiti che vanno a impattare sul suolo agricolo.

Una parte del Ppe non ha votato in linea con il partito su questa legge, come si spiega questa scelta? Ha un significato anche in vista delle alleanze in vista delle prossime elezioni europee del 2024?

Ci sono stati una ventina di voti differenti nel Ppe, ma faccio notare che ci sono venti non partecipanti al voto nelle file dei socialisti democratici. Sta di fatto che il Ppe, il partito più grande con 177 parlamentari, nella votazione finale ha avuto qualche defezione. Faccio fatica a pensare che in un gruppo così grande non ci siano dalle 10 alle 20 persone che esprimono posizioni che non coincidono con quelle degli altri. Un minimo dibattito interno non può non esserci. Bisogna capire se il segnale può anticipare nuove maggioranze. Fino a un anno fa questa votazione avrebbe prodotto un risultato diverso, molto più di stampo green. Da qui a dire che ci sarà una nuova maggioranza ce ne corre. Quello che posso dire è che si stanno creando le condizioni perché nelle partite più rilevanti, come la sostenibilità, sia possibile costruire un’agenda più fedele all’origine del piano, senza l’ansia di raccogliere voti descrivendo un mondo che non esiste e che non può esistere; una agenda che valorizzi chi ha già sostenuto la battaglia della sostenibilità.

Il tema è fissare dei contenuti e vedere chi li condivide?

La via maestra non è andare a vedere se ci sarà un accordo tra conservatori e popolari, accordo che tra l’altro c’è già: come c’è un commissario conservatore nel collegio commissariale della von der Leyen, c’è anche un vicepresidente conservatore nel collegio della Metsola, l’alleanza non c’è solo con la Lega e Le Pen. Il punto vero è che il Ppe deve formulare una proposta e dimostrare un’apertura a chi vorrà sostenerla. Non facciamo il contrario, la conta da destra e da sinistra per avere una maggioranza.

Sul tema della transizione ecologica come dovrà correggere la prossimo Commissione europea le criticità che sono state evidenziate?

L’Unione Europea ha due grandi eccellenze: il sistema di welfare e la sostenibilità. Ma siamo con il freno a mano tirato riguardo alla competitività sui mercati globali: le nostre aziende subiscono la concorrenza sleale e il dumping predatorio di produttori che operano al di fuori delle normali regole dal punto di vista sociale e ambientale. Dobbiamo investire sulla competitività dei nostri prodotti e dei nostri servizi. La progressiva perdita di fette di mercato può tradursi in perdite di posti di lavoro. Poi c’è il tema dell’agenda digitale, dove siamo veramente in fondo alla classifica.

Sulla questione delle case e delle auto green cambierà qualcosa?

Spero che non si cambino i target ma si cambi metodo. Sulle auto il punto è il metodo di calcolo: la verifica delle emissioni al tubo di scappamento non dice la modalità con cui è stata prodotta l’energia elettrica. Non mi associo agli sciocchi che chiedono di ridurre le ambizioni ambientali, ma non si può ridurre tutto a una tecnologia, significa opporsi all’innovazione. In commissione Industria abbiamo introdotto la definizione di carburante neutro carbonicamente. Benissimo l’elettrico, ma anche il motore a combustione interna, basta dimostrare che il quantum di anidride carbonica che rimane con il biocarburante è stato risparmiato nel processo di produzione. Nell’elettrico quando si dice che le emissioni sono zero al tubo di scappamento non si è ancora dimostrato che tutta l’energia elettrica utilizzata per caricare quella batteria non sia in nessuna parte derivata da centrali a carbone.

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