È di nuovo allerta meteo a Ischia, e la preoccupazione stavolta va alle case che sono rimaste in piedi dopo la frana di Casamicciola, con tutte le polemiche che la slavina di fango ha lasciato. L’intervento di esperti urbanisti, geologi e politici mostra con chiarezza la crisi profonda del sistema delle decisioni nella nostra democrazia. Più la tecnica indica soluzioni di buon senso, coerenti con la logica e l’esperienza tecnica, più emerge la lontananza di queste posizioni dal vissuto quotidiano degli amministrati, intenti a vivere secondo le loro leggi.
Le comunità locali cresciute nei decenni della latitanza anche mediatica dello Stato, lasciate a loro stesse, hanno maturato prassi e metodi del tutto avulsi da ogni contesto regolatorio. Decenni di mancata pianificazione unita allo sviluppo economico e turistico di molte aree prima depresse hanno portato intere comunità a creare un meccanismo di sviluppo che ha di fatto pregiudicato, in modo irrimediabile, ogni possibile ritorno alla legge.
I tentativi negli anni sono stati diversi. I vincoli di inedificabilità assoluta del demanio marittimo pubblico esistono dalla Legge Galasso del 1985, eppure le coste sicule, ad esempio, sono stracolme di prime e seconde case a qualche metro dal mare. Negli anni recenti un vincolo severissimo per salvaguardare la zona rossa del Vesuvio imponeva il divieto di “ogni ampliamento di volumetria”, eppure le pendici del vulcano sono piene di nuove abitazioni costruite da pochi anni. Interi comuni come Sperlonga hanno case e ville costruite in zone inedificabili per uso civico, per non parlare dei sottotetti divenuti abitazioni abusive in tanta parte del Nord o dei capannoni costruiti in zone di scolmo fluviale in tanta parte del Paese.
Le regole rigide, draconiane, compresa la sanzione della incommerciabilità assoluta, sono state superate con brillantezza dagli stessi professionisti che si occupano della materia, declinandola in senso restrittivo quando accadono le tragedie. Basta depositare un’infondata istanza di condono per rendere un cespite astrattamente trasferibile e liberare notaio e banca da ogni pensiero.
Per non parlare di piani regolatori (e loro varianti) approvati a cose fatte e senza alcuna concreta possibilità di pianificare alcunché in quelle aree, spesso già inurbate di fatto, laddove le tavole prevedono campi verdi e parchi per bambini. La vita di ognuno trascorre ormai in una solitaria corsa a ciò che ritiene giusto, vedendo nella legalità, nelle regole, solo un limite a ciò che desidera e ritenne giusto per sé. Come gli occupanti delle 54 abitazioni nella zona di Casamicciola che, nonostante l’invito solerte a lasciare case spesso abusive ed in pericolo, non se ne vogliono andare. Ancorati alla terra, ai mattoni appoggiati al suolo spesso senza fondamenta adeguate, mettendo a repentaglio se stessi, obbligando le istituzioni ed i loro uomini a prendersene cura anche se sanno che potrebbe di nuovo esserci un disastro.
In questo gioco di specchi le proposte sensate non mancano. Assicurare per legge tutti gli edifici esistenti e da costruirsi e spostare sui privati eventuali costi di rifacimento e manutenzione straordinaria post evento può essere una parte della soluzione del problema. Obbligherebbe ciascuno a pagare di tasca propria la scelta di vivere in case più o meno adeguate agli eventi ed in territori più a rischio di altri versando premi coerenti con i rischi a cui ci si sottopone. Così come imporre il “riuso” del territorio imponendo il recupero di aree urbane dismesse e fatiscenti per combattere il consumo di suolo.
Ma resta il tema di cosa fare dell’eredità del passato. Dei milioni di metri cubi che fino alle ultime propaggini del Mezzogiorno sono nati senza le carte a posto, costruiti illegalmente da imprese che hanno lavorato in nero, riciclando (come dimostrato negli anni dalle indagini dell’antimafia) soldi della criminalità organizzata. Ecco, quelle abitazioni andrebbero divise in categorie che distinguano tra le astrattamente condonabili, quelle per le quali servono opere pubbliche o private per renderle a norma e quelle irrimediabilmente illegittime e pericolose.
Queste ultime andrebbero di certo abbattute con un piano straordinario finanziato ad hoc dallo Stato coi proventi dell’emersione delle prime due categorie. Le altre potrebbero emergere a patto di rispettare i migliori e più attuali criteri di sicurezza dei singoli edifici e di compatibilità coi rischi rilevati dalle mappature (già esistenti), pagando per intero oneri e imposte anche arretrati.
A quel punto chi resta in case inadatte, insicure, in zone dichiaratamente pericolose, in attesa di abbattimento dovrebbe accettare l’idea che ogni cosa che gli accade non è dovuta a Giove pluvio, alla natura maligna, alla malasorte. Ma alla scelta consapevole di correre un pericolo, di esporre se stesso ed i propri familiari ad un rischio di cui deve assumersi la responsabilità. Come chi sale in pieno inverno sulle cime innevate di una vetta difficile nonostante gli avvisi contrari. Se vengo a salvarti, i costi li paghi tu. Se capita qualcosa a chi è con te, la colpa è tua.
Si è già fatto, come detto. Ma poi c’è la vita delle persone che vanno avanti e la scelta della politica che è quella di non decidere, di non creare conflitto, anche se appare una cosa giusta. E così che, sotto questi dilemmi, la capacità di decidere di una democrazia muore. Sperando nel bel tempo. E dando la colpa alla pioggia. Sperando che si plachi.
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