L’autonomia differenziata non deve portare bene se a ogni passo si blocca per poi riprendere il suo cammino in forme sempre mutevoli e con una messe di novità rispetto alle puntate precedenti.

Battute a parte, la brusca frenata della discussione – o sarebbe meglio dire della controversia? – in atto dimostra, innanzitutto, che il percorso prescelto, fatto di testi nascosti e di intenzioni malcelate, è cosparso di insidie anche per chi pensava di giocare la partita con un semplice atto stipulato nel chiuso di una stanza, quasi fosse una contrattazione tra soggetti privati, e senza il necessario passaggio in un confronto aperto con tutte le Regioni, con gli Enti locali interessati e nel Parlamento.



In questi giorni, poi, sta emergendo sempre più nettamente un quadro di temi e di interventi che non corrisponde alla tradizionale distinzione Nord-Sud, con la quale alcuni volevano tracciare la linea di demarcazione del dibattito in corso. Infatti, si stanno esprimendo dubbi e riflessioni all’interno di forze sociali e culturali di tutto il Paese, senza differenze di collocazione geografica, nell’interesse comune di realizzare riforme pregne di contenuti e obiettivi utili per la crescita e la modernizzazione complessiva dell’Italia, in tutte le sue parti.



Tra questi oggettivi inviti alla saggezza vi è il contributo di Roberto Bin, che non mette in discussione il tema di una maggiore autonomia, equilibrata e responsabile, ma contesta alle fondamenta una visione, al tempo stesso, disgregatrice, quando tende a minare il ruolo unitario dello Stato, e neo-centralistica, quando mostra dispregio per il coinvolgimento dei Comuni nelle scelte di decentramento di competenze a livello regionale, come nel caso sollevato dal sindaco di Milano.
Inoltre, dopo la forte presa di posizione di livelli istituzionali indiscutibili, come il procuratore generale della Corte dei conti e il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio (Dagl) – che hanno paventato lo squilibrio delle proposte di assegnazione di poteri e funzioni alle tre Regioni interessate, l’impraticabilità dal punto di vista normativo e costituzionale di alcune procedure e scelte di merito, la rischiosità per l’assetto e la funzionalità delle stesse amministrazioni pubbliche nazionali e territoriali di alcune forme estreme di devolution – è venuta l’audizione del consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) Alberto Zanardi presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale, impegnata a esaminare, attraverso un’indagine conoscitiva, le procedure in atto per la definizione delle intese tra il Governo e le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna.



Zanardi ha sottolineato testualmente l’esigenza di fare attenzione “all’analisi delle funzioni di cui si richiede il trasferimento per valutarne la coerenza con gli interessi nazionali, le ricadute sul funzionamento dello Stato e delle altre Regioni”.

Ha aggiunto, altresì, che “il sistema di finanziamento delle competenze aggiuntive previsto dalle bozze di intesa presenta elementi contraddittori che suscitano preoccupazioni per i possibili rischi sia sulla tenuta del vincolo di bilancio nazionale sia sulla garanzia della solidarietà interregionale. Ne discende, che i decisori politici, e in primo luogo il Parlamento, dovrebbero essere informati e consapevoli delle implicazioni finanziarie delle intese e delle dimensioni delle risorse coinvolte. Sembra perciò inadeguata l’ipotesi, contenuta nelle bozze d’intesa, di rinviare la valutazione degli effetti di finanza pubblica a Dpcm successivi all’entrata in vigore delle leggi di approvazione delle intese stesse”.

Infine, ha dichiarato, sempre testualmente, che è indispensabile definire “le modalità con le quali garantire, anche in un quadro di federalismo differenziato, la tutela degli obiettivi di uniformità delle prestazioni su base nazionale e la tenuta dei conti pubblici; i criteri di quantificazione delle risorse finanziarie necessarie per dare attuazione alle nuove funzioni decentrate; la scelta degli strumenti fiscali con cui realizzare il trasferimento di risorse”.

Si tratta di un messaggio chiaro e ineludibile, peraltro accompagnato da esempi pratici e indicazioni per una decisa correzione di rotta.

Nonostante questo clima positivo, che tende a riportare il confronto su basi ragionevoli e assennate, c’è ancora chi tende a far prevalere le posizioni estreme.

Innanzitutto, si vorrebbe negare la necessità di ogni forma di perequazione (e del relativo fondo), contravvenendo all’articolo 119 della Costituzione e al cosiddetto “federalismo fiscale”, per assegnare anche le risorse dell’extra-gettito, che si potrebbe verificare nei prossimi anni, solamente alle tre Regioni del Nord.

Si intenderebbe rinviare la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e, di conseguenza, l’individuazione dei fabbisogni e dei costi standard a una fase successiva, quando vi è una legge che attende di essere attuata da un decennio.

Come se non bastasse, si vorrebbe trasferire un consistente pezzo di fiscalità dal centro alla periferia, attraverso l’assegnazione di una parte dell’Irpef, che potrebbe comportare un aggravio del debito pubblico – altro che parità di spesa! – e ridurre drasticamente le risorse disponibili per rendere omogenei i servizi e le prestazioni dello Stato per tutti i cittadini su tutto il territorio dello Stato.

Con questa ipotesi si può creare un avamposto per far rientrare dalla finestra il tema del residuo fiscale, che era uscito dalla porta, di fronte ai calcoli sbagliati del ministero per gli Affari regionali e le Autonomie e alla confutazione della stessa finalità della misura, che in realtà era stata teorizzata negli Stati Uniti dal premio Nobel James M. Buchanan per consentire la convergenza delle aree più deboli verso quelle più forti e favorire uno sviluppo economico robusto e diffuso.

E può sorgere il sospetto di una norma dedicata, all’interno del tentativo di superamento del sistema fiscale progressivo, per annullare sic et simpliciter l’attribuzione secondo criteri di equità distributiva della differenza tra il contributo fornito da ogni cittadino per il finanziamento dell’intervento pubblico e i vantaggi che ottiene in forma di spesa e servizi.

Infine, questa rincorsa alla cieca verso l’accaparramento di una forma estrema di “autonomia” e di poteri, che rappresenterebbe una modalità concreta di destrutturazione e di dissoluzione affatto creativa, tende a fare della scuola e dei rapporti salariali un’altra invalicabile trincea, anche in relazione alla maggiore pacatezza di alcune Regioni e di alcune forze e istituzioni nazionali.

Perciò, è auspicabile far prevalere la consapevolezza che da soli non si va da nessuna parte nella competizione globale e unire gli sforzi delle persone sagge, delle forze sociali e produttive di buona volontà del Nord e del Sud, che chiedono di aprire la discussione, senza inopinate fughe in avanti, realizzando una riforma condivisa, che saldi autonomia a responsabilità nazionale, a un’unica visione positiva dell’Italia e del suo futuro.