Pedro Costa è uno di quei registi che film dopo film è diventato una delle figure di riferimento per il cinema radicale, per i festival, per i cinefili oltranzisti, perché il suo cinema è radicale e oltranzista, sempre di più verrebbe da dire col passare degli anni. Il Pardo d’oro all’ultimo festival di Locarno lo ha consacrato e il film con cui l’ha vinto, Vitalina Varela, è in questi giorni al Torino Film Festival.
Il film prosegue il percorso del regista nella baraccopoli Fontainhas, a Lisbona, cominciato fin dai primi film (Ossos del ’97), e segue i personaggi e le modalità visive degli ultimi suoi tre lavori, Juventude em marcha e Cavallo denaro (di cui riprende la fotografia buia pesta squarciata da tagli di luce). La protagonista è colei che dà il titolo al film, una donna che arriva a Lisbona da Capo Verde per presenziare alla morte del marito: il suo arrivo lì la spingerà a pensare alla sua vita e alle condizioni disperate dei capoverdiani di Lisbona.
“Abbiamo entrambi un lutto: tu hai perso tuo marito, io ho perso la mia fede” dice il prete interpretato da Ventura, protagonista del precedente film di Costa. Su questa doppia linea funerea si muove il film che sonda l’inconscio dei personaggi prima di ogni cosa, facendoli parlare come a sé stessi o all’abisso, facendoli pensare al senso delle cose prima che dialogare. L’immersione in questo buio maestoso (fotografia di Leonardo Simões) dà contorni simbolici al film, facendolo apparire come la lotta per queste persone contro l’oblio, la sparizione, cercando – e trovando grazie al cinema di Costa – un posto per essere illuminati, per farsi sentire.
Anche l’altro lutto però risuona importante: la perdita delle fede, la morte o la scomparsa di Dio che portano alla morte oppure al riscatto dell’uomo (nel finale si apre la luce e il film esce all’esterno, come a riprendersi mattoni di vita) sono un filo che lega l’anti-narrazione di Costa, che veicola la sua riflessione al mix tra la visione di Caravaggio e lo straniamento dei film di Straub e Huillet.
Come detto, Vitalina Varela è un film radicale e oltranzista nel suo rifiuto di un’idea precostituita di ritmo, nel suo negarsi alle condizioni normali di fruizione (è un film praticamente impossibile da vedere su uno schermo che non sia cinematografico, è qui che le sue immagini risultano magnifiche fino al sublime) per chiedere allo spettatore di scavare nel suo inconscio – come un sonnambulo – come Costa scava nel buio.
È però anche, proprio per tutto ciò che si è detto, un film che solleva qualche dubbio: di estetismo, per esempio, come se il lavoro visivo fosse a volte superfluo, un modo per catturare l’attenzione dello spettatore e per ammantare di bellezza qualcosa che non è, un’esercitazione più che un’opera; oppure di maniera, nel cercare di ritornare su modi e stili altrui o già sondati in passato come una scorciatoia. Oltre i dubbi, resta che Vitalina Varela è un film che chiede allo spettatore l’atteggiamento di chi si presta a un’immersiva esperienza visiva e al contempo la capacità di porsi domande su quell’esperienza a partire dalla potenza dei suoi quadri. Una richiesta tutt’altro che facile.