Ci troviamo al termine di un lungo tragitto che ha portato a una grave crisi istituzionale, da cui non sappiamo ancora come usciremo. Questo capita in un momento storico particolarmente delicato per la lunga crisi, non solo economica, ma anche di assetto del Paese che attraversiamo ormai da quasi trent’anni.

L’Italia sembra bloccata in una crisi di identità e in un’astenia preoccupante. Disincanto e scetticismo sono palpabili, ma si avverte la frustrazione e la rabbia, anche comprensibile, delle persone. Ma dietro il rancore c’è un disagio e dietro il disagio sempre più spesso c’è solitudine, isolamento, impoverimento dei rapporti e dei legami.



Il tarlo disgregante ha da tempo cominciato a insinuare l’idea che gli altri, i diversi sono sempre il male assoluto. Non c’è nulla nell’altro che possa essere utile al mio bene. Al punto da arrivare a credere che si potrebbe stare meglio se si eliminasse chi è più storto o più dritto, più povero o più ricco.



Il nostro Paese può essere paragonato a un territorio dalla natura rigogliosa che si sta desertificando. In particolare, stiamo assistendo a un impoverimento di quel tessuto di realtà associative, di aggregazioni che storicamente aveva creato un’unità di popolo ancora prima dell’unità della nazione.

Perché si è iniziato a fare così fatica a coinvolgersi in progetti per il bene comune? Qual è il punto da cui ricominciare? Serve un nuovo modo di conoscere, che non si riduca all’analisi, ma sappia guardare più a fondo la realtà, usare lo sguardo, stupirsi. Questo fa sì che possiamo non essere persone senza volto, o figure anonime, come dice papa Francesco commentando il titolo del Meeting, ma persone che sanno guardare, stupirsi e trovano in questo la loro identità.



Quello che le analisi economiche non possono cogliere, perché non è prevedibile, è la scintilla di fronte a situazioni concrete che genera la voglia e la capacità di andare avanti, di rischiare. Come ha scritto don Julián Carrón, “la questione fondamentale è identificare dove si genera un soggetto adulto, in grado di creare un’espressione culturale all’altezza della sfida dei tempi che viviamo”. Rimane centrale quindi la “sfida educativa”, a tutti i livelli.

Che cosa riguarda ultimamente una sfida del genere? Riguarda la crescita dell’autocoscienza personale, la maturazione della ragione, dell’affezione, della libertà. Ma come sappiamo, questo può accadere se si accetta di aprirsi, di conoscere, di entrare nel merito, mettere le mani in pasta, rischiare di sbagliare.

Senza questo non c’è nemmeno creatività, non c’è capacità di individuare soluzioni nuove a problemi complessi, come quelli che deve affrontare la società contemporanea. Ripartire dalla persona e dalla comunità, come abbiamo sentito dal Presidente Mattarella. Queste realtà, come i movimenti (in origine erano quello cattolico e quello operaio), associazioni, partiti, sindacati, lungo la storia, ha aiutato i singoli a incontrarsi, a confrontarsi, a conoscere, ad approfondire, a porsi domande. Soprattutto ha sostenuto i loro desideri, i loro ideali, la loro capacità di iniziativa contro la tentazione di immeschinirsi.

Oggi più che mai si sente il bisogno di realtà che sostengano ogni “io” a riprendere consapevolezza, motivazione, fiducia. Si possono fare tutte le riforme che si vogliono, ma senza educazione delle persone non può esserci cambiamento nemmeno delle istituzioni.

Qui al Meeting abbiamo tantissimi esempi di apertura fiduciosa alla realtà. Riguardano ad esempio scuole di istruzione e formazione professionale e altre opere educative di ogni genere, associazioni di imprese, imprese, Ong, associazioni in campo ambientale, socio-assistenziale e sanitario, il Banco Alimentare, che ha appena celebrato i suoi 30 anni.

Non serve moltiplicare le leggi. Servono fatti di vita nuova subito. Fatti di rivitalizzazione di realtà aggregative subito. Sostenere la partecipazione dei cittadini “dal basso” significa sostenere la maturazione personale e civile degli individui. Bisogna essere consapevoli del fatto che senza corpi intermedi saremmo un Paese ancora più spaccato di quello che è. Ogni realtà sociale ha oggi una grande responsabilità: quella di educare alla responsabilità, oltre che alla solidarietà. La sussidiarietà è innanzitutto un’esigenza educativa.

Perciò il futuro del nostro Paese si giocherà soprattutto su un punto: che rinascano ambiti in cui le persone possano tornare a essere aiutate a vivere una giusta dimensione sociale. Pur in un clima di disinteresse generale, ci sono ancora spazi per chi è spinto a interessarsi dei problemi del Paese. Non è tutto perso. Ma perché si arrivi a questo servono luoghi di confronto, di dialogo, di riflessione.

Quali sono gli obiettivi da raggiungere?

Primo: l’educazione. Serve un sistema pluralista, fatto di autonomia e parità per la scuola. Un sistema formativo che insegni un mestiere a chi spesso non ha prospettive, visto che oggi ci sono molti posti di lavoro che rimangono vuoti perché non c’è chi è pronto e preparato a occuparli. Serve investire di più nella ricerca e per l’università.

Secondo: il lavoro. La carenza di lavoro, insieme alla sua precarizzazione, è il grande dramma di questi anni nelle società sviluppate. Colpisce i più fragili e i giovani. Bisogna comprendere che il lavoro, cioè la spinta e l’impegno a trasformare la realtà, è ciò che più ci fa scoprire chi siamo e che cosa stiamo a fare al mondo. Parlare di sviluppo senza occupazione (che significa profitto solo per pochi) è un attentato alla stessa dignità delle persone. L’iniziativa degli individui attraverso il lavoro è il motore di un sistema sussidiario. Ci vogliono investimenti per lo sviluppo e non spese solo assistenziali perché il lavoro c’è solo quando c’è sviluppo e le imprese, piccole, medie e grandi, che hanno già svoltato, sono in grado di reggere la globalizzazione.

Terzo: tutto ciò può accadere grazie alla diffusione di una cultura sussidiaria. Il grande impoverimento sociale e civile in cui viviamo può essere affrontato solo ritrovando la vitalità delle comunità di base, luoghi in cui le persone vengono aiutate a vivere una giusta dimensione ideale e sociale. Non c’è mai stato un momento come questo dove sia così necessaria la sussidiarietà. Ma la portata di questo principio è ancora più ampia. Stiamo continuamente trovando interlocutori di diversa estrazione culturale che nella sussidiarietà vedono la strada maestra per creare percorsi di convivenza nelle società pluraliste e democratiche contemporanee.

Quarto obiettivo: sviluppo sostenibile. “Sostenibilità” è il termine che da più di trent’anni si è cominciato a usare per affermare una cosa molto semplice: lo scopo dello sviluppo è il bene comune, cioè una rinnovata centralità della persona. Per questo non può esserci sostenibilità senza sussidiarietà. E per questo non si può continuare a trascurare equità e giustizia sociale, rispetto delle generazioni future e dell’ambiente. L’Onu ha fissato 17 obiettivi di sostenibilità per il 2030. Senza questa centralità della persona i 17 obiettivi rimangono generici.

Quinto obiettivo: la ripresa di una cultura politica guidata verso una convergenza che aiuti a vedere ciò che c’è. Il bene comune non è un’idea astratta, ma una prospettiva generale mutuata da esempi particolari che funzionano. Prescindendo dalla conoscenza dei particolari concreti, il bene comune diventa un’astrazione ideologica, magari anche in grado di proporre grandi progetti, ma che nasceranno già lontani dalla vita delle persone.

Non possono esserci risse continue. I 25 anni di risse continue della Seconda Repubblica hanno portato allo sfascio. In un momento drammatico per la vita del Paese serve ritrovare una corresponsabilità.

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