Una lunghissima intervista dai toni “incendiari” quella mandata in rassegna da Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera alla moglie vedova di Giovanni Leone, Vittoria Michitto: la chiamavano “Donna Vittoria” ed era la ben nota First Lady dell’ex Presidente della Repubblica durante gli anni del Caso Moro e delle Brigate Rosse, ma non solo, è colei che ancora oggi ha qualcosa da dire su quel delitto che segnò la storia d’Italia. E non rinnega nulla: «Moro era molto legato a mio marito, era stato suo assistente di diritto penale all’ università di Bari. Il destino li volle entrambi candidati della Dc al Quirinale: votarono i gruppi parlamentari; Giovanni vinse per otto voti, e Aldo fu leale, non armò i soliti franchi tiratori», racconta nella lunga intervista sul CorSera la signora Leone, che ricorda Aldo Moro come un uomo sostanzialmente triste «Non parlava quasi mai, ma quando parlava non smetteva più; e non si capiva niente. Avevamo un barboncino nero e l’ avevamo chiamato Moro. Suonarono alla porta e lui si agitò, io lo rimproverai: “Moro piantala, Moro stai buono!”. Poi andai ad aprire: era Moro, quello vero. Ci era rimasto malissimo». Cazzullo allora la “pressa” e quanto ne esce ha il sapore del clamoroso: «Mio marito è l’ unico democristiano che Moro non abbia maledetto nelle sue lettere. Fece disperatamente e inutilmente di tutto per farlo liberare. Ma avemmo la sensazione che fosse un destino segnato».



LA LETTERA “ANONIMA” E IL CASO MORO

Secondo Vittoria Michitto in quei giorni arrivò una lettera a casa Leone indirizzata proprio a lei, «segnalava il covo brigatista. La portai al ministero dell’Interno. La ignorarono. Quando la chiesi indietro, mi dissero che era sparita». Sempre Donna Vittoria sottolinea, amaramente, «le Br lo uccisero poche ore prima che Giovanni firmasse la grazia per una terrorista malata che non aveva sparso sangue, Paola Besuschio». Nella stessa intervista la signora Leone ricorda come anche Fanfani all’epoca fosse contrario alla trattativa, a differenza di Andreotti e della maggioranza della Democrazia Cristiana: «Fanfani era uomo di partito, oltre che delle istituzioni, mentre mio marito incarichi di partito non ne volle mai, per non trovarsi a gestire troppi compromessi e giochi di potere». In merito ad Andreotti invece la signora Michitto svela «L’ ho sempre considerato un amico di famiglia. Adorava giocare a carte con me e alcuni amici comuni. Giovanni condivideva la sua apertura a Mosca e al Medio Oriente. Lo considerava un grande politico che, a dispetto di quel che si crede, alternava all’ astuzia anche momenti di ingenuità». La fulgida e lucidissima Vittoria racconta poi come il vero scopo nel Paese, in quel periodo di “compromesso storico” era un cambio di gestione nella nazione: «Leone si dimise perché la Dc non lo difendeva dagli attacchi interessati del Pci. Proprio quella Dc che qualche mese prima lo aveva implorato di non dimettersi come lui avrebbe voluto, per potersi difendere meglio. Tutto cambiò con la terribile morte di Moro». Fuori lo statista sardo, secondo la signora Michitto, fuori anche il suo amato Giovanni: «Quella tragedia, che si poteva evitare se gli avessero lasciato firmare la grazia, spinse Dc e Pci a forzare un ricambio, una ripartenza scioccante, fornendo al Paese un capro espiatorio. Così uccisero anche Giovanni Leone, psicologicamente e umanamente». Tornando su questioni più “leggere”, viene chiesto infine alla signora Leone perché in Italia il ruolo della First Lady sia rimasto solo “per lei” e non ebbe poi seguito: «La prima fu Ida Einaudi. Si affezionò molto a me. Anche troppo, voleva sempre che la accompagnassi… Saragat, presidente prima di Giovanni, era vedovo. Gli altri predecessori erano molto più anziani. Il Paese non era abituato a vedere al Quirinale una famiglia al completo, con moglie giovane e figli piccoli. Del resto, né Mussolini né i Savoia hanno evidenziato figure femminili accanto a loro, per scelta. Veniamo da un passato maschilista. E restiamo il Paese dove la maldicenza primeggia e il rispetto delle istituzioni è dote rara».

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