La storia della famiglia Attorre ruota attorno all’asma della piccola Lucilla, che preoccupa mamma e papà, due genitori già piuttosto confusi dalle proprie debolezze. Tra insuccessi personali, guai lavorativi, magagne quotidiane e relazioni sbiadite, la famiglia affronta i suoi problemi come può, sconvolta, per un po’, dall’arrivo di Mary Ann, irlandese ragazza alla pari di buoni propositi e sani principi.
Si dice che le serie tv inizino a essere all’altezza del cinema, a volte addirittura a superarlo, per qualità, mezzi economici, innovazione. Bene, nel caso di Vivere, la cosa non sembra essere difficile.
Bruciata da non sappiamo cosa, in preda alla confusione o forse piegata ai bisogni commerciali, Francesca Archibugi, con all’attivo buoni film come Mignon è partita o Il grande cocomero, sembra aver definitivamente perso la bussola della qualità cinematografica. Con Vivere, presentato fuori concorso alla Mostra cinematografica di Venezia (2019), la regista romana produce in un’unica opera un’intera epopea di banalità, con grande affinità alla peggior fiction televisiva. Una pesante martellata per l’agonizzante cinema familiare italiano (se non in termini di pubblico, almeno in termini di qualità) e un’onta per la superba e spesso altezzosa mostra veneziana. Come ci è arrivato in laguna?
In questo film abbiamo, in ordine pressoché casuale: Micaela Ramazzotti (Susi), straordinaria in alcune interpretazioni della sua carriera, prevedibile carta carbone più prevedibile del prevedibile in questo film in cui copia di se stessa; Adriano Giannini (Luca), compagno di Margherita, interprete stereotipato del maschio smarrito, abbandonato con buona e frequente predisposizione al facile tradimento, incurante dei doveri di padre; Andrea Calligari (Pierpaolo), figlio problematico di genitori separati, con un piede nella famiglia dei ricchi e un piede nella famiglia dei poveri, con evidenti disturbi di maturità e di droga; Luisa Miccoli (Lucilla), la giovane bambina di famiglia, pietosamente oppressa dall’asma psicosomatica, al centro delle mielose preoccupazioni dei distratti, amorevoli e imperfetti genitori; Enrico Montesano (De Sanctis), il nonno severo, potente e ammanicato, colonna di famiglia, pozzo di denaro senza fondo con qualche scheletro nell’armadio (come la sua forte passione per i travestiti); Roisin O’Donnovan (Mary Ann) completa il quadro della compagnia dell’assurdo, ragazza alla pari di pia estrazione, casta suora o promessa suora dagli incrollabili valori morali che, indovinate indovinate, a quale tentazione cederà?
Attorno al nucleo dei grandi eroi di questo memorabile (nel senso che, dopo averlo visto, non puoi più dimenticartelo) film “spazzacinema”, c’è spazio anche per il medico amorevole, Massimo Ghini (Marinoni) che raccoglie (scusate se svelo l’imprevedibile inghippo) le ansie dell’insicura Ramazzotti, ben pronta ad accogliere braccia, baci e mercanzia varia del suo sensibile salvatore, vedovo in cerca di nuova casa e, udite udite, il vicino di casa, volto indimenticabile dell’indimenticabile Dogman, assurto agli onori dei David e subito riciclato in questo pietoso ruolo di bonario spettatore della famiglia e grimaldello di nuova coscienza collettiva. Purtroppo, in questo circo dell’ovvio, manca il cane, ed è una mancanza imperdonabile.
C’è, però, e questo è rassicurante per il cliché, la moralina predigerita, che dà il titolo al film: vivere. Ebbene sì, la vita non è facile. Si sbaglia, si fanno errori, si cede alle tentazioni, si cade ma ci si rialza sempre. In fondo, siamo tutti un po’ imperfetti. Ma, questa volta, Francesca Archibugi sembra esserlo un po’ più di noi tutti, almeno come regista.