È possibile vivere senza paura? Il dialogo svoltosi ieri pomeriggio al Meeting di Rimini fra Julián Carrón, Charles Taylor e Rowan Williams ci ha costretti a prendere sul serio questa domanda. Non tanto a fornire una soluzione, a indicare una via di fuga o a prescrivere una terapia. Ma a porre semplicemente la questione.



Come una volta ha scritto Taylor, indicando il metodo di approccio più adeguato a capire la natura delle società secolarizzate, bisogna “porre le domande giuste ed evitare tutti i tipi di ingenuità”. Non partire cioè dai pregiudizi, da quello che pensiamo già di sapere e che alla fine non ci fa neanche vedere ciò che ci sta davanti, bensì partire dall’esperienza. E proprio nel caso della paura fermarsi al già–saputo è esattamente il modo più sicuro per non venirne mai a capo.



Proviamo a seguire l’indicazione di Taylor. Ognuno di noi sa, per esperienza, che la paura è come una criticità ricorrente, una ferita permanente dell’esistenza. Noi possiamo anche maneggiarla con cura o gestirla con apposite strategie, ma difficilmente riusciremo a eliminarla. E forse un motivo c’è, indipendente dalle nostre capacità di controllo. La paura sta sempre in agguato, perché è uno dei segni più incombenti della nostra finitezza. Segno cioè della nostra incapacità a realizzare – come pure vorremmo, e nel modo che vorremmo – la nostra felicità.

La paura è come l’ombra del nostro stesso io. Essa nasce in prima battuta dalla minaccia che qualcosa di estraneo, di nemico, di incontrollabile esercita su di noi, ma poi si svela presto nella sua reale portata. La paura vera è quella di non essere io all’altezza delle sfide che mi pone la realtà, di scoprirmi impotente a raggiungere quello che desidero. E che in definitiva la vita sia un gioco a perdere: anche quando si vince, perché le vincite poi si consumano, non durano quanto vorremmo, cioè sempre.



Ma se è così, sarà mai possibile vivere senza paura? Che sia possibile vincerla definitivamente non è forse in nostro potere. Ma quello che ci può succedere – ed è quello che ci hanno testimoniato questi tre protagonisti – è che si possa non aver più paura della nostra paura. Che si possa essere liberi, guardandola in faccia, giudicandola, accettando la sua difficile sfida. L’impossibile che diventa possibile è niente di meno che questo: la paura, dall’essere un ostacolo a vivere pienamente sé stessi e a godere della realtà, diventa una specie di compagna di cammino. Diventa una strada, o addirittura la strada di ciascuno per diventare sé stesso.

Come succede ai bambini (ma anche ai grandi, a ben pensarci) quando superano la paura di entrare in una stanza buia grazie alla mano della mamma o del papà che tiene la loro, e con questa presenza più grande andrebbero – senza paura, appunto – ai confini del mondo. Dice Carrón che “l’incertezza non è un nemico, ma un’opportunità”. I nemici spesso sono le proiezioni delle nostre paure e delle nostre insicurezze esistenziali. L’opportunità è quella di “scoprire qualcosa di più essenziale per vivere”, e proprio per questo la nostra epoca – quella della secolarizzazione e più ancora del nichilismo – è quella in cui “riemerge l’esigenza di un significato”. La perdita del senso è percepita come una mancanza, e la mancanza come un’arsura che non riusciamo a estinguere.

Questo capovolge allora il senso abituale con cui – almeno a partire dalla seconda metà del Novecento – pensiamo al mondo “secolarizzato”. Non possiamo più limitarci a intenderlo come la perdita di certi riferimenti ideali o come la riduzione dei valori spirituali cristiani a valori puramente mondani e intra–mondani. Questo è certamente accaduto, ma l’esito non è solo che abbiamo perso l’origine cristiana, trascendente, della nostra cultura, riducendola a un’immanenza assoluta, ma soprattutto che abbiamo perso, molto di più, il mondo stesso, e smarrito la consistenza del nostro stesso “io” (e così la stessa immanenza sfiorisce).

Perciò, come afferma Williams, “la secolarizzazione non è tanto una sconfitta”, ma neanche solo una sfida o un’opportunità, che dipenderebbero in tutto e per tutto dalla nostra capacità o incapacità di coglierla e di sfruttarla. Essa è piuttosto “una vocazione”, addirittura “un appello di Dio”, il quale ci porta a questa situazione come uno che “ci stia aspettando”. E non si tratta di un appello morale a ciò che dovremmo essere, ma (per usare le parole di Carrón) della chiamata “a una consapevolezza più grande della nostra natura di essere umani” e insieme della “vera natura del cristianesimo, come risposa alla sete degli uomini”. Un invito, per dirla con Taylor, a “crescere nella fede”, cioè in “quella realtà che ci porta ad un mondo più ampio” (Williams).

Non aver più paura della nostra paura è l’inizio della libertà. Questa è la posta in gioco del nichilismo contemporaneo: la libertà, non come possibilità di scelta ma come soddisfazione e pienezza di sé, sembra essersi davvero ridotta nel nostro tempo, a motivo dello smarrimento del significato ultimo del vivere. Ma allora tutto diventa più chiaro, più semplice, almeno come problema: il senso di sé e del mondo può essere nuovamente presente solo grazie a delle presenze umane.

“Solo una presenza può vincere la paura. L’unica questione è trovare queste presenze”, afferma Carrón guardando Williams e Taylor. E noi che li guardiamo dialogare e camminare insieme così, capiamo che si tratta di una strada, di un metodo percorribile e ragionevole anche per noi.

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