È sempre affascinante stupirsi e stare dinanzi a qualsiasi percorso vero di amicizia, in quanto suscita l’“inevitabile simpatia”. Per questo, anzitutto, sono vivamente da ringraziare Carrón, Williams e Taylor, nell’averci fatto il dono di parteciparci la loro esperienza di amicizia, perché incontro è dialogo, ed il dialogo cambia, non ci fa restare quelli di prima, ed il dialogo ci cambia quando è esperienza, cioè quando nasce dallo stare dell’io dinanzi alla realtà, come diceva Julián Carrón.



Per una persona come me, che si occupa di problemi mentali, e mette al centro il dialogo come strumento di cura, l’incontro di ieri al Meeting Vivere senza paura nell’età dell’incertezza non può che avere con meraviglia aperto od amplificato domande e questioni, proprio a partire dalla realtà quotidiana. Si sono toccati, infatti, i punti fondanti dell’esperienza dell’umano, percorrendo con lo sguardo amorevole degli oratori poche, ma definitive, parole-chiave: paura, secolarizzazione, esperienza della realtà, libertà.



Anzitutto, viene da ricordare come, dopo avere imparato, o tentato, o fatto finta di imparare che la pandemia da Covid-19 poteva essere umanamente comprensibile soltanto se assunta come un’occasione da non perdere, ecco riproporre una nuova e, verrebbe quasi da dire, definitiva sfida (o, come definita da Rowan Williams, “vocazione”) dinanzi alla quale ci troviamo, come uomini: l’incertezza e la secolarizzazione.

Le due cose non sono affatto slegate, come ben è stato affermato. Proprio l’incertezza, la paura, l’incontro con l’ignoto o con il minaccioso, se prima appariva essere semplicemente la conseguenza della pandemia, ora chiaramente appare la diretta conseguenza della crescente secolarizzazione, e la caduta della speranza dell’occidente l’esito del tentativo di estromissione di Cristo dalla sua storia e dai fondamenti della sua cultura. È stato come scoprire che proprio quando l’uomo ha cercato di fondare la sua certezza sulla propria forza, con la scienza o magari con la virologia, ha trovato soltanto incertezza, confusione e solitudine.



La visione del mondo, che potrebbe apparire, se ci fermassimo qui, apocalittica, in realtà è risultata trasformata, attraverso i volti accoglienti e sereni degli oratori, in una sfida, un compito, una “realtà che ci porta ad un mondo più ampio … che è più di ciò che conosciamo”, come ha detto Rowan Williams. Se penso alla mia pratica quotidiana, rileggo ogni passaggio dell’incontro come i tasselli di un dialogo che produce cambiamento, che apre alla speranza.

Ci si rivolgono a noi persone sempre più giovani, le quali, private dell’esperienza di una paternità vera o dell’incontro con qualcosa di “dato”, di un “prima” di sé, come sfida per la ricerca di una identità propria, non possono che rischiare continuamente di frammentarsi. Infatti, noi siamo costituiti da un “prima” di noi, pertanto, all’ignoto di un “dopo” (la pandemia, i disastri climatici, o qualsivoglia altra minaccia), ora rischia di associarsi sempre di più l’ignoto di un “prima”, e questo è davvero quello che blocca la libertà, lo stare dinanzi alla realtà. Ma la speranza nasce dall’avere visto persone capaci, come dicevano Charles Taylor e Julián Carrón, di farsi le domande giuste, quelle che servono a “capire cosa serve per vivere” ed a darci il “coraggio di non consegnare la libertà al potere”, come ha detto Charles Taylor.

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