Ufficialmente tace, ma di certo Silvio Berlusconi non è entusiasta di ciò che sta accadendo in questi giorni all’interno del Pdl. Prima i malumori di Scajola, poi le minacce di Giovanardi, senza dimenticare i “Responsabili” che attendono, con un certo nervosismo, che il premier mantenga le promesse fatte facendoli entrare nell’esecutivo. Tutte cose che il Cavaliere avrebbe volentieri evitato.

Quest’oggi il premier potrebbe prospettare a Napolitano un primo mini-rimpasto (con Saverio Romano all’Agricoltura e Giancarlo Galan a sostituire Bondi), la priorità però è un’altra: cercare di raggiungere un accordo che possa permettere alla riforma della Giustizia di andare in porto.

Il discorso è semplice. Nonostante le turbolenze dei mesi passati il governo è ancora in sella, la maggioranza si è rafforzata e lavora sui cinque punti illustrati in occasione del voto di fiducia dello scorso settembre. Approvate le misure sulla sicurezza, approvato il federalismo che attende di essere convertito in legge, avviati i “tavoli tecnici” che dovrebbero portare alla riforma del fisco, approvato il piano per il Sud che Berlusconi ha già sottoposto al vaglio delle istituzioni europee.

Insomma, mancava solo il tassello della Giustizia che, dopo l’ultimo consiglio dei ministri, è entrato prepotentemente nella discussione politica. Il premier può ritenersi soddisfatto anche perché sul fronte opposto non sembra ancora esistere un’alternativa credibile e si continua a litigare su tutto.

In questo scenario la riforma della giustizia è l’elemento giusto per aumentare la confusione. Berlusconi sa che parte dei moderati del Terzo Polo e parte del Pd vorrebbero dialogare con lui, per questo ha chiesto di sgomberare il campo da qualsiasi equivoco. Nasce da lì la scelta di eliminare la norma transitoria contenuta nel testo sul processo breve. In questo modo, è il ragionamento del Cavaliere, nessuno potrà più dire che le priorità dell’esecutivo sono le cosiddette “leggi ad personam”. Al contrario, il centrodestra ha tutto l’interesse a evitare forzature realizzando quell’ampio confronto che anche il Capo dello Stato continua a chiedere.

La palla, insomma, è nelle mani dell’opposizione divisa tra la linea dura di Antonio Di Pietro e quella più dialogante dei riformisti democratici. Più la spaccatura tarda a sanarsi e più il premier è sicuro di restare a Palazzo Chigi cercando, nel frattempo, di far risalire i sondaggi.

Il dramma giapponese, però, sembra aver dato una mano ai suoi avversari. Il ritorno della minaccia nucleare non è certo un segnale incoraggiante in vista dei referendum che si celebreranno a giugno. La paura potrebbe spingere i cittadini ad andare alle urne facendo raggiungere quel quorum che, al momento, appare irraggiungibile.

Ma, al fianco dei quesiti sull’energia e sull’acqua, c’è anche quello sul legittimo impedimento.  Venisse abrogata la legge il premier potrebbe comunque continuare a governare, ma sarebbe costretto a fare i conti con una sconfitta imprevista, che arriverebbe a un mese da elezioni amministrative che il governo è quasi sicuro di vincere. Non è un caso quindi che Pier Luigi Bersani, dopo aver tergiversato per mesi, ieri ha detto chiaramente che sosterrà il referendum contro il nucleare. Una mossa che rischia di dividere il partito, ma che potrebbe far recuperare un po’ di appeal tra gli elettori.