Una lettera circostanziata, con riferimenti precisi per evitare fantasiose interpretazioni. Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano l’ha inviata ai presidenti di Camera e Senato e al presidente del Consiglio Mario Monti. L’argomento non è nuovo. Il presidente della Repubblica ha preso spunto dal decreto milleproroghe approvato proprio ieri a Montecitorio per criticare una prassi piuttosto in voga nelle aule parlamentari: quella di utilizzare testi approvati dal governo, che proprio per questo hanno carattere di urgenza, come un contenitore nel quale infilare qualsiasi cosa.
Troppi emendamenti, troppe modifiche che non c’entrano con la materia affrontata dai provvedimenti. È ora di dire basta. Napolitano lo ha fatto, lo aveva fatto anche lo scorso anno: stesso richiamo, stesso decreto. Ma stavolta c’è una sentenza della Consulta che, proprio pochi giorni fa, aveva fissato alcuni paletti per il milleproroghe: primo fra tutti quello di “obbedire” ad una “ratio unitaria”.
Eppure, dietro le parole del Capo dello Stato, dietro quel suo invito a non stravolgere il senso degli interventi messi a punto dall’esecutivo, sembra esserci dell’altro. Non a caso la sua lettera arriva nei giorni forse più difficili da quando Monti si è insediato a Palazzo Chigi. La sua eterogenea maggioranza comincia infatti a mostrare delle leggere incrinature. Il milleproroghe non c’entra. A far discutere sono ben altre priorità: il lavoro e le liberalizzazioni.
Sul primo punto è stato il Pd ad “alzare la voce”. In fondo il partito di Pier Luigi Bersani, sul tema, è da sempre diviso tra massimalisti e riformisti. L’esecutivo, per bocca del premier e del ministro del Lavoro Elsa Fornero ha detto che andrà avanti anche se non dovesse esserci l’accordo di tutte le parti in causa. E i Democratici hanno immediatamente controrilanciato: se è così il nostro voto favorevole in Aula non è scontato. Non solo, ma se l’esecutivo si ostina a far di testa propria, sappia che il Pd darà battaglia e modificherà il testo in Parlamento. Che resta comunque il luogo cui spetta il potere legislativo.
Il secondo nodo critico, le liberalizzazioni, ha messo in agitazione il Terzo Polo. Anche qui la “minaccia” è la stessa: o si cambia o il nostro voto favorevole non è scontato. È chiaro che dietro gli ultimatum si nasconda la voglia dei partiti di tornare protagonisti in una fase in cui i “tecnici” guadagnano consenso tra i cittadini.
Ma è indubbio che questi distinguo non siano piaciuti al Quirinale che ha voluto subito mettere le cose in chiaro. Le riforme servono e si faranno. Se qualcuno pensa di sfilarsi per guadagnare un vantaggio competitivo in vista delle elezioni sappia che non avrà vita facile.
Non è un caso che dopo la lettera di Napolitano, soprattutto all’interno del Pd, siano emersi malumori. “Questo significa che d’ora in avanti nessun testo del governo potrà più essere modificato” era il commento che ieri circolava tra i parlamentari democratici.
In questo scenario chi resta più defilato è Silvio Berlusconi. Il Cavaliere attende la sentenza del caso Mills che dovrebbe arrivare domani. Quasi certamente non saranno buone notizie ma poco importa, quelle arrivano dai palazzi della politica dove i diretti concorrenti, chi più chi meno, sembrano in difficoltà. Il Pdl resta in attesa, si gode le riforme di “destra” che Monti sta portando avanti (soprattutto sul tema del lavoro) e prova a giocare da protagonista questa fase. Dopotutto, in questo momento, l’obiettivo dichiarato da Berlusconi nei colloqui privati è e resta uno solo: non regalare Monti alla sinistra.