Insegno materie letterarie nel liceo dove alcuni ragazzi sono stati sospesi perché sorpresi con la vodka durante la ricreazione. A leggere i mille articoli sui giornali, sembrerebbe di parlare di un liceo senza regole e trascurato nella vigilanza ai propri studenti, di ragazzi senza genitori o con genitori totalmente assenti o menefreghisti. Vi assicuro che non è così.



Dall’inizio dell’anno siamo bombardati di regolamenti e divieti. I bidelli sorvegliano minuto per minuto bagni e corridoi. I docenti sono ligi al loro dovere di vigilanza totale: si può uscire uno per volta per urgenti motivi, non ci si può fermare a parlare lungo i corridoi, ricreazione con mille occhi puntati sui ragazzi… La dirigente continuamente impegnata a indagare sui motivi delle uscite di questo o quell’alunno. Le famiglie? Bravissime. Aiutano i propri figli, presenti se la scuola le chiama, premurose e attente. E allora?



Allora ci scandalizziamo se dei ragazzi sentono il bisogno di portare un cicchetto a scuola e poi fotografarsi e postare la bravata. Perché lo fanno?

Perché lo scollamento tra il fare le cose a scuola – studiare, seguire le lezioni, fare i compiti, stare in laboratorio – e il senso della propria vita è sempre più abissale. È immenso. Loro stanno in classe per cinque o sei ore senza muoversi, da persone perbene, ubbidiscono ai genitori e cercano di accontentarli, ma senza vivere il perché, senza capire o vedere cosa c’entra con loro la materia che studiano, i libri, la spiegazione del prof, le faccende di casa. Alla fine della settimana non ne possono più. Questo io deve scoppiare in qualche modo. Bisogna sfogarsi e scappare da una vita che è prigione e dovere. Ubriacarsi e sballarsi. Per sentire che si è vivi. Che si esiste.



E ora non basta più il sabato sera. Occorre dimostrare che si respira, che si è qualcuno, anche a scuola, anche dentro la gabbia. E allora si hanno attacchi di panico, ci si taglia, si pratica il bullismo, si arriva anche in certi casi ai tentativi di suicidio, si porta l’alcool a scuola, si insulta il professore per dire che si esiste. Per dire: “Guardatemi! Io esisto! Sono vivo, consideratemi”.

Più le regole crescono, più cresce la rigidità nelle scuole, più gravi sono gli atti a cui assistiamo ormai quotidianamente. Le regole occorrono, ma non sono sufficienti. Mi fanno ridere certi genitori che se la prendono con i propri simili giudicandoli incapaci di educare, che viziano i figli, che parlano di famiglie senza colonna vertebrale… “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, recita un salmo. Stiano attenti che non capitino queste cose dentro le mura delle loro case. Farisei.

Ieri una insegnante – nella stessa scuola della vodka, la mia – ha proposto un incontro su un romanzo sul colonialismo che i ragazzi stanno leggendo a lezione. L’incontro era di pomeriggio. Nessuno era obbligato a presenziare per il voto o per obblighi vari. C’erano più di trenta persone, tra studenti e insegnanti. I ragazzi hanno presentato il libro paragonandolo alle loro esperienze. Era un modo vivo di studiare. Ognuno ha tirato fuori tutto se stesso, parlando dei vari personaggi del testo. Vedevi giovani che erano tutti presenti in ciò che facevano. Non divaricati tra un doverismo che comprime e uno sfogo istintivo e incontrollato dell’io.

Questa è l’unica strada: una scuola in cui ognuno possa trovare espressione di se stesso. In cui gli adulti si preoccupino del destino di ogni ragazzo. In cui non domini la paura e (quindi) la trasgressione. Un luogo in cui, come scrive Galimberti, il futuro sia ancora una promessa e non una minaccia.

Un clima di pressante controllo su ragazzi e docenti, un’atmosfera dominata da paura, urla, sospetti e minacce, crea solo schizofrenie nei giovani. Si deve apparire in un certo modo, ma alla fine non si vede l’ora di sbottare.

Occorrono aule piene di lezioni significative, attraenti, motivate, amanti della vita. Occorrono adulti che amino, rieduchino, accompagnino, richiamino con autorevolezza e consapevolezza. Sappiamo ancora farlo?

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