Intendiamoci. Il sentimento che tutti proviamo davanti a un disabile è complesso. Ricordo che negli anni Ottanta un noto psicanalista scandalizzò la platea dei suoi uditori dicendo che un disabile è brutto. Non si tratta certo di condividere un giudizio così esplicito, ma almeno di riconoscere le componenti di pietà, di commiserazione, di perplessità, di presa di distanza dall’infermità, sia essa fisica, motoria o mentale.
Per chi è più sensibile il pensiero non può che correre ai sacrifici che occorrono per accudire una persona svantaggiata, ai suoi genitori innanzitutto; per chi è più riflessivo non di rado si fa largo la domanda sul perché, per la quale raramente affiora una risposta convincente. Serve poco la retorica che mostra una vita riuscita nello sport, nella famiglia, nel lavoro per alcuni disabili, monito e incentivo agli altri meno tenaci e fortunati. Resta il grande sacrificio di un limite lungo come la vita.
Da queste considerazioni di avvio alla vicenda della piccola egiziana disabile, chiamata per questo dai suoi genitori “scimmia”, percossa, avvelenata, non voluta a tal punto da progettare la sua morte, ce ne corre. Ma non serve scagliarsi contro chi l’ha messa al mondo: c’è già chi renderà alla piccola che non ha ricevuto affetto e cura almeno quella che i tribunali chiamano giustizia. Una parvenza di giustizia, perché chi può risarcire il male?
Gli episodi di disprezzo dei minori, dei deboli, degli anziani sembrano aumentare in un mondo che si inaridisce, e non a causa dei cambiamenti climatici. Gli occorrerebbe un supplemento d’anima, una fonte fresca di lacrime, un colpo d’ala che lo sollevi dalla sola cura del denaro. Coloro che si dedicano alle persone disabili, siano i famigliari o i medici, gli infermieri o gli amici, sono un grande esempio di amore, un inno feriale alla vittoria della vita.
Il triste episodio della piccola egiziana richiama alla mente i più piccoli di tutti, quelli che non hanno più nulla da subire, perché hanno già subìto tutto. I bambini non nati. Loro non andranno al Fatebenefratelli con un braccino fratturato e così si scoperchierà una storia di stenti e di miseria, anche morale. Loro sono già stati in ospedale e lì si è conclusa la loro vita sulla terra, non quella in cielo. Di loro nessuno parla, dopo gli anni delle grandi polemiche. Ma questo silenzio grava come un senso di colpa che è illusorio rimuovere sul nostro mondo in gran parte ostile alla vita.