L’ESTINZIONE DEGLI ITALIANI: PARLA LO STATISTICO ROBERTO VOLPI
Roberto Volpi lo dice da tempo: l’estinzione degli italiani verso i prossimi decenni è un elemento di cui pochi ancora si rendono conto – tranne poche voci isolate, come Gigi De Palo del Forum Famiglie o lo stesso Presidente Istat Blangiardo – ma che travolgerà le future generazione se non si inverte rapidamente la rotta già tristemente intrapresa. Nel suo ultimo volume “Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo”, lo statistico autore di “Storia della popolazione italiana dall’Unità a oggi” lo dice con ancora più chiarezza. «Non sappiamo se, oggi, una grande popolazione occidentale possa estinguersi. Personalmente penso di no, ma la storia non offre esempi in questo senso e non possediamo la sfera di cristallo…», spiega Roberto Volpi intervistato da “il Giornale” per commentare la curva della denatalità nel nostro Paese.
Altro che salario minimo o Reddito del Cittadinanza, il punto di crisi è ben più profondo: «le tendenze demografiche di lungo periodo, che possono cambiare, sia chiaro, non nel senso che queste traiettorie possano invertirsi, ma che possono essere modificate, vanno nella direzione di una forte riduzione quantitativa, e qualitativa, della popolazione». Citando ancora i dati Istat, Volpi considera che le previsioni da qui al 2070 danno un’Italia con una popolazione di 12milioni in meno rispetto agli attuali 59 milioni: «Fra cinquant’anni saremo intorno ai 47 milioni, mentre per la fine del secolo saremo sotto i 40 milioni secondo la Population Division dell’Onu, la cui stima non è la più pessimistica; per esempio, l’Università di Washington ci dà a 30 milioni. Una débâcle».
I MOTIVI PER VOLPI: “CROLLO NASCITE E PERDITA VALORE DEI FIGLI
Il rapporto tra bambini e anziani è ancora più drammatico per il futuro dell’Italia, ovvero per il futuro delle prossime generazioni: avendo già noi l’indice di vecchiaia più alto del mondo assieme al Giappone, sostiene ancora Roberto Volpi, «ci sono circa duecento anziani, sopra i 65 anni, ogni cento bambini, sotto i 14 anni». Il declino della popolazione è legato a strettissimo filo con quello della natalità, sebbene le teorie a riguardo siano ben complesse: lo statistico raggiunto da “il Giornale” spiega infatti che il fenomeno del crollo nascite accompagna l’Italia da almeno metà degli anni Settanta. «Si fanno meno figli, e le donne italiane sono fra quelle che ne fanno meno al mondo», spiega Volpi provando a ragionare anche sulle ragioni concrete alla base di tale allarme. Di certo le politiche “pro nascite” molto più forti in Europa del Nord e in Francia rispetto al nostro Paese fanno una buona parte del problema: assegni per i figli, detrazioni fiscali, servizi per l’infanzia, addirittura gratuiti.
Ma c’è molto di più e non viene legato solo alle (gravi) mancanze della politica: «c’è un venir meno del valore del figlio: una volta il figlio era il completamento di una vita, e la prosecuzione della propria esistenza; oggi viviamo indipendentemente dai figli e, spesso, scegliamo di vivere senza. E questo ha cambiato profondamente l’Occidente». Come sottolineava in maniera “contro-corrente” il giornalista Mattia Feltri nei giorni scorsi su “La Stampa”, il problema della denatalità non avviene principalmente tra le famiglie povere bensì da quelle più abbienti: non si vuole rinunciare ad un benessere così faticosamente guadagnati dopo anni di sacrifici e lavori. La demografia registra secondo Roberto Volpi un fallimento continuo della nostra civiltà: «Nel libro parlo di una società abituata al poco: poca famiglia, pochi figli, poche relazioni… Del resto, il poco è più semplice del molto», spiega ancora lo statistico, aggiungendo come dopo il referendum sul divorzio fu proprio il matrimonio ad uscirne “in pezzi”, «questo crollo coinvolge la natalità, perché il matrimonio religioso è quello a più alta propensione ad avere figli, è quasi finalizzato ai figli, anche se non solo». Quindi la politica ha meno responsabilità del popolo stesso? Non esattamente come chiarisce in conclusione ancora Volpi, «ormai la finestra per agire è breve: restano non più di dieci-quindici anni per riprendere e modificare le tendenze in atto. Quello che mi preoccupa di più, però, è che intorno al tema ci siano l’indifferenza sostanziale di chi ha il potere e il dovere di agire, e una scarsa comprensione della sua decisività assoluta: è il primo problema del Paese, e di questo non c’è coscienza».