Natale: festa del paradosso vertiginoso. L’Infinito irriducibile di Dio, origine e vertice ultimo di ogni cosa esistente, si concentra nello spazio millimetrico di un grumo di materia vivente. Diventa un cuore che batte, un essere in tutto come noi, che fa sentire il suo pianto tremante di bambino affacciandosi sulla scena del mondo, in braccio alla madre che lo ha generato e lo nutre. Lo straordinario sta negli estremi che si toccano: il totalmente altro da noi si fa carne, e la barriera di separazione che divide il cielo dalla terra si lascia perforare, aprendo la strada a un interscambio altrimenti impossibile.



Emerge l’imponenza di un fatto clamorosamente oggettivo, in primo luogo e semplicemente da “guardare”: un’esplosione di novità davanti a cui sostare in silenzio ad ammirare, come accade d’istinto quando si contempla il miracolo della vita che rinasce in ogni bimbo di qualunque culla dei nostri tempi moderni. I gesti compiuti e i segni materiali esibiti, come da secoli suggerisce la tradizione proteiforme dei presepi e delle sacre rappresentazioni, alimentano con la loro eloquenza il fascino dell’adesione affettiva. Ma esiste anche l’aiuto che può venire da parole, discorsi ascoltati, testi da leggere e da assimilare in grado di illuminare la mossa della memoria, spingendola fino al culmine della lucidità più acuta, che scava al di sotto dell’apparenza emotivamente più spontanea.



È quanto si può proporre di sperimentare cimentandosi con la grande sinfonia di apertura dell’opera forse più nota di Hans Urs von Balthasar: La percezione della forma, il primo volume di Gloria. Una estetica teologica, che a sua volta è la sezione inaugurale di una trilogia allargata poi a studiare il dramma divino-umano animato dalla “manifestazione” della forma divina (Teodrammatica) e, infine, le vie di accesso alla verità della struttura ontologica del mondo, di Dio e del loro reciproco rapporto (Teologica).

Per accostarsi all’insigne maestro del pensiero cristiano del Novecento bisogna però rimuovere il pregiudizio banalizzante in cui spesso si finisce con l’appiattire il senso della sua introduzione al mistero dell’iniziativa di Dio che viene incontro al bisogno del soggetto umano per condurlo alla trasfigurazione di ciò che è stato creato. Lo schema semplificatore è quello di von Balthasar apologeta del primato della bellezza. Ma si deprime la logica globale di una prospettiva arditamente sintetica se la si abbassa al principio secondo cui è la “bellezza che salverà il mondo”. Von Balthasar è molto di più che un paladino del lato estetico della vocazione dell’uomo chiamato al suo compimento. A parte il fatto che il primato del “bello” acquista i suoi contorni reali solo mettendolo in rapporto con i legami che lo uniscono, nella triade balthasariana, alla costellazione degli altri due poli costituiti dal “buono” e dal “vero”, quando si leggono le pagine di Gloria ci si accorge subito di essere proiettati in un orizzonte intellettuale enormemente più dilatato.



Se vogliamo fissarci sulla sua architettura di sostegno, possiamo dire che la visione di von Balthasar poggia sull’intreccio di due movimenti fondamentali, visti nella loro concatenazione inestricabile: sono i due lati di un’unica dinamica che investe la realtà dell’essere nella sua totalità.

Il primo movimento è quello della forma che si rivela. Dio non se ne sta rinchiuso nella signoria unilaterale della sua sublime diversità, relegato nel soprannaturale che ci scavalca da ogni lato e sfugge a ogni presa. La struttura profonda del divino è, al contrario, la sua autoespressione, l’espansione di sé che diventa dono e consegna, apertura di condivisione, già a partire dal mistero interno alla comunione trinitaria e poi (ma non è un “poi” che abbia valore sul piano cronologico) dall’avvio del processo della creazione.

Il nesso con la bellezza sta nel fatto che il “venir fuori” della sostanza divina, il suo manifestarsi ineludibile, si può allusivamente descrivere (e prima ancora: cogliere dal punto di vista umano) come un “irradiamento”. Per questo von Balthasar parla a più riprese di “irraggiamento della gloria di Dio”, di “splendore fluente”, di “luce dello splendore” che si rende visibile e attira a sé lo sguardo. La metafora liquida e allo stesso tempo luminosa è la simbologia in cui si traduce la sostanza di questo approccio alla centralità di Dio come “gloria”. E la “forma” è l’esito a cui la potenza autocomunicativa della gloria conduce: è ciò di cui noi (e l’universo del mondo nel suo insieme) possiamo arrivare a fare esperienza, l’oggetto della nostra parziale, limitata e sempre in divenire, “percezione”.

Il secondo movimento è il risvolto speculare del primo. Al prendere forma concreta del mistero di Dio, dalle viscere profonde in cui si inabissa la realtà dell’esistente fino al suo diventare un volto, una presenza umana radicata nella storia che si prolunga fino al presente, fa da controcanto la reazione di risposta. Il fiume inesorabile del manifestarsi della pienezza, quindi anche dell’onnipotenza, della perfezione, dell’assoluta integrità e verità di Dio (in cui sta la fonte della “bellezza” che attrae) trascina con sé l’energia che porta a lasciarsi avvolgere dallo splendore del positivo, del valore, della possibilità di esaltazione da cui si viene investiti. La “forma” contiene in sé la spinta che fa aderire, se diciamo il nostro sì, al suo fascino di conquista: è una forza di suggestione che muove la libertà. Ma l’adesione si struttura, nella sua genesi, come un “essere rapiti” (riemerge qui l’analogia con l’esperienza estetica); è un movimento affettivo che ha come fine ultimo l’“immedesimarsi nella forma”, dal momento in cui l’attrattiva di una forma luminosa si “imprime” in chi entra nell’orbita del suo incunearsi nel cuore della vita del mondo.

Al centro dell’autoesposizione che è la dinamica incessante dell’essere-in-azione di Dio si colloca il Figlio che si fa Logos. E la Parola che si comunica irraggiandosi nell’universo creato è la stessa che prende forma visibile nella realtà del corpo di Cristo, uomo-Dio entrato nella vicenda umana in un punto preciso del tempo e dello spazio. Così che il movimento di manifestazione della gloria trinitaria sfocia, in definitiva, nell’“autoconsegna incondizionata” del Dio incarnato. È tutto “amore che si dona”: l’amore di Dio “eternamente amante”, il frutto dell’“eros divino che esce fuori di sé [e non potrebbe essere altrimenti] per farsi uomo e morire sulla croce per il mondo”. È chiaro che solo “in questa forma brilla la gloria oggettiva di Dio”, nel suo grado più elevato: Cristo è la suprema autorivelazione del Padre che si rende “percepibile” dalla parte dell’uomo. Lo “splendore irraggia dal Signore incarnato”, che “riempie con la sua gloria [gloria crocifissa, contestata e negata] la creazione redenta”, attraverso e al di là di ogni rifiuto e di ogni dimenticanza.

La fede scatta, in questo circuito, in quanto risposta di consegna all’amore manifestato, riversato come grazia sulla famiglia umana di ogni tempo della storia. Lo sfondo resta, sempre, ultimamente drammatico: in analogia con l’avvenimento di Cristo, la fede è la consegna amorosa “di tutto di sé”, un amore corrisposto che esige un sì totale, oppure decade. “La gloria di Dio nel mondo, la quale appare come nel suo centro in Cristo ‒ a Natale ne rimeditiamo il punto di manifestazione sorgiva ‒ si rende manifesta solo nell’impegno della lotta, della vittoria e della sconfitta. La rivelazione è un campo di battaglia” (premessa a L’azione, vol. IV di Teodrammatica).