Sono due i gialli della giornata di ieri a Strasburgo, nella quale Ursula von der Leyen è stata rieletta alla guida della Commissione europea. Il primo riguarda il numero dei franchi tiratori, che si sono confermati pari ad almeno il 12% della nuova “maggioranza Ursula”, formata da popolari, socialisti, liberali e verdi. Sulla carta i quattro gruppi avevano 454 voti, ma la leader tedesca ne ha ricevuti soltanto 401. Per una stranissima coincidenza, è l’esatto numero di voti che avrebbe dovuto incassare se i tre alleati “base” della scorsa legislatura (Ppe, Pse e liberali) fossero stati uniti e compatti, senza disertori. I verdi sarebbero dunque andati a compensare alla perfezione le defezioni che non sono mancate tra le forze principali.



Ma la lettura è davvero questa, semplice e lineare? Sono bastati gli ecologisti per pareggiare al millimetro i tradimenti interni alla maggioranza? È molto improbabile. E qui si apre il secondo giallo. Alla vigilia si prevedeva che i dissidenti della maggioranza sarebbero stati il 15%, quindi poco più di 60 eurodeputati. Tuttavia sono mancati “soltanto” 53 voti. Quindi è assai probabile che la von der Leyen abbia avuto un “aiutino” mascherato. Se ne è fatto portavoce, a spoglio concluso, un autorevole rappresentante di Forza Italia, Fulvio Martusciello, capodelegazione azzurro nel gruppo Ppe. Che ha parlato esplicitamente di un “soccorso di Ecr”, cioè i conservatori di Giorgia Meloni.



A rafforzare i dubbi c’è la linea dettata dalla stessa Meloni agli eurodeputati di Fratelli d’Italia. Nei giorni scorsi si era parlato di “libertà di voto”, il che però poteva dare adito al sospetto che la premier italiana si tenesse le mani libere per un’estrema trattativa con Ursula, tesa a non perdere troppo peso contrattuale nei rapporti con Bruxelles. Sono seguiti incontri e contatti finché la libertà di voto ha virato verso un “no” ufficioso alla nuova maggioranza, troppo esposta ai ricatti dei verdi. Ma questa opposizione non è mai diventata una dichiarazione di voto ufficiale. L’orientamento di FdI contrario alla nuova maggioranza Ursula è giunto a urne aperte, non prima.



Perché questa scelta della Meloni? Il “no” risponde all’esigenza di non lasciare a Salvini l’esclusiva del fronte “no Green Deal” ed è pure una mano tesa a Confindustria, che ha attaccato duramente le politiche ambientaliste che l’Europa si accingerebbe a varare. Inoltre, preserva la compattezza dell’eurogruppo Ecr, fieramente ostile alla “follia ambientalista”, ed esprime la coerenza con la sostanza del voto europeo del 6-9 giugno scorsi nonostante che, nel discorso programmatico, la von der Leyen abbia aperto a destra sul tema immigrazione. Ufficialmente, la Meloni non poteva che dire “no” alla riconferma di Ursula. E questo, secondo molti osservatori, potrebbe costare all’Italia la perdita di una vicepresidenza esecutiva della Commissione.

Ma la presidente del Consiglio, evitando di esporsi in fase di dichiarazione di voto, si sarebbe tenuto aperto un ultimo spiraglio di trattativa con il nuovo esecutivo comunitario. La Meloni ha bisogno, da un lato, di non chiudere i canali di interlocuzione con la nuova stanza dei bottoni; dall’altro, di avere la garanzia almeno sul nome del commissario spettante all’Italia, cioè il ministro Raffaele Fitto. I commissari dovranno ottenere un benestare dal Consiglio europeo e poi dall’Europarlamento: un passaggio tutt’altro che scontato, come ricorda bene Rocco Buttiglione che nel 2004 subì il veto dell’emiciclo di Strasburgo e dovette essere sostituito da Franco Frattini. La conferma di questo scenario di “soccorso Ecr” si avrà se Fitto passerà con i voti di una maggioranza alla quale – formalmente – è contrario. Altrimenti tra Italia e Commissione Ue sarebbe ostilità totale.

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