Nei panni di Ursula von der Leyen voi affrontereste cinque anni a Bruxelles appesa alla fiducia di una manciata di voti verdi a Strasburgo? Bollata come gregaria di due leader semi-bolliti (dall’ultimo voto europeo) come Emmanuel Macron e Olaf Scholz? Manterreste la loro fatwa contro l’Italia di Giorgia Meloni, leader di fatto del terzo partito europeo? Magari con Donald Trump di nuovo alla Casa Bianca fra dieci settimane? Lascereste fuori dalla vostra porta una donna fra i 27 premier del Consiglio Ue?
Le grandi manovre del Ppe (di cui Ursula è stata spitzenkandidat vincente in giugno) possono aver sorpreso solo chi in Italia si era avvoltolato nella pseudo-crisi di governo balneare innescata da Forza Italia attorno allo ius scholae. La “visita di Stato” di Manfred Weber a Palazzo Chigi ha lasciato anzi una traccia ben visibile sullo scacchiere politico interno: l’euro-partito che ospita gli eredi berlusconiani (a cominciare da Antonio Tajani) considera Meloni un interlocutore solido e affidabile. Non facilmente rinunciabile in un oggi fluidissimo, al fine di strutturare la governance e la strategia Ue; e soprattutto in un domani prossimo, per gestire nuovi equilibri europei in cui la Germania tornerà prevedibilmente a essere governata da Cdu-Csu e la Francia difficilmente potrà eludere l’ascesa della sinistra come primo partito. Esattamente come FdI si è confermato primo partito in Italia alle europee due anni dopo le politiche.
Il “reality check” è confermato anche da un nervoso corsivo di Politico in cui i socialdemocratici europei cominciano a realizzare che il loro peso a Bruxelles è destinato a diminuire (i loro alfieri sono Scholz e il non meno pericolante premier spagnolo Pedro Sánchez).
Certamente nulla è ancora definito o scontato: non, anzitutto, la nomina di Raffaele Fitto a una delle tre caselle di vicepresidente vicario della Commissione, con una delega economica di peso. Se però dovesse accadere, Meloni avrebbe finalmente ottenuto il “sigillo” sul riconoscimento che spetta all’Italia. Un risultato incerto dopo il passivo accusato nel primo tempo dell’offensiva di Macron e Scholz, in Consiglio Ue, e poi sequestrando i voti popolari, socialdemocratici e liberali nell’europarlamento appena eletto. Anche se al prezzo obbligato del “soccorso verde”, assieme ai voti dei post-berlusconiani italiani, disobbedienti alla loro maggioranza a Roma.
Può darsi che il “cessate il fuoco” fra von der Leyen e Meloni si traduca nell’immediato in soluzioni intermedie, mentre è ancora massima l’incertezza sul voto Usa e sulla crisi politica francese (entrambi sono passaggi densi di incognite più per la presidente della commissione Ue che per la premier italiana). Certamente si sta dimostrando puramente mediatica la retorica sull’“Italia isolata” in Europa.
È semmai l’opposizione italiana a restare inerte e incerta. Meglio inseguire la suggestione di un ribaltone “mattarelliano” come nel 2019, rispolverando il copione mediatico della resistenza all’odio nero, eccetera? O meglio iniziare a sfidare politicamente il Governo sul terreno dell’inflazione, della guerra Nato e dei diritti veri messi a repentaglio (lavoro, potere d’acquisto dei salari, sanità e scuola efficienti e gratuite per tutti)?
Il nuovo premier laburista britannico, Keir Starmer, ha vinto le elezioni promettendo di metter mano ai problemi reali dei sudditi di Sua Maestà: tutti quelli lasciati da otto anni di governo conservatore Brexiter. E ora vuole alzare le tasse, anzitutto ai redditi più alti e forse sui patrimoni accumulati a Londra nei lunghi anni della globalizzazione finanziaria.
Elly Schlein invece continua per ora nel silenzio che ha rappresentato il suo standard da quando è approdata alla segreteria Pd (uscendo peraltro bene dal voto europeo 2024). Per questo è lecito non azzardare previsioni: mai dire mai, soprattutto se il 5 novembre dovesse spuntarla Kamala Harris (Schlein è stata “campaigner” di Obama-Biden nel 2012). Nel frattempo, però, per Meloni non sembrano incontrastabili gli attacchi politico-mediatici degli Eredi Berlusconi a difesa del duopolio Raiset; né quelli degli Eredi Agnelli, che pretendono sussidi statali italiani – coma dalla Prima guerra mondiale a questa parte – a favore di un gruppo privato francese di cui sono primi azionisti attraverso una holding olandese.
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