Le infiltrazioni della ndrangheta al Nord sono un problema del Pd? Anche. Sono solo un problema del Pd? Certo che no. Solo che a furia di guardare travi negli occhi degli altri, qualche bel ramo nodoso è anche nell’occhio del Partito democratico. E la cosa appare, forse, ben più grave di quella che è agli occhi di governa il Partito.
Il punto è che a livello territoriale la politica si nutre del rapporto con un consenso spicciolo e sanguinolento fatto di mercimoni che vanno dai piccoli favori ai grandi accordi correttivi su edilizia, commercio e speculazioni varie. Cose che nel Mezzogiorno erano fenomeni endemici ma territorialmente circoscritti sino a qualche decennio fa. La progressiva emigrazione delle mafie, testimoniata da inchieste quasi profetiche come quelle di Gratteri, ha creato una vera e propria pandemia del consenso che ha radici lontane. Come dimenticare la vicenda di Brescello, comune emiliano e patria di Peppone e Don Camillo, che nel 2016 fu sciolto per mafia? O gli insediamenti nel litorale laziale di clan di ndranghetisti e camorristi che, guarda caso, comandavano nei comuni della zona?
Cosa c’è di nuovo oggi? Solo lo stupore di chi governa il Partito, che ha una immagine di sé e degli iscritti quasi agiografica. E che non riesce a cogliere come il potere sia per sua definizione un attrattore di altri poteri. Se una cosca vuole prosperare dopo essersi allocata in territorio deve, per forza di cose, entrare in contatto con la politica locale e infiltrare le istituzioni per avere il controllo. A prescindere dal fatto che sia a Torino o altrove. E quando si accasa in un partito lo fa in modo subdolo, con denari e favori, che da e che chiede.
Quindi non rendersene conto e parlare degli “altri” come i cattivi, intesi come competitori elettorali, è pericoloso assai. Lo è perché non coglie l’essenza del problema, ovvero che ci sarà sempre una tentazione dei politici locali, e non solo, ad appoggiarsi a chi ha soldi e voti. E avere in tasca una tessera non elimina il problema.
Quello che serve è decidere una volta e per sempre se il fenomeno lo vogliano togliere di mezzo. Capire che se il giro di affari delle mafie nel nostro Paese è stato nel 2022 di 220 miliardi non stiamo parlando di qualche vecchio arnese con la coppola o di quattro mascalzoni, ma di un pezzo importante della nostra società che vive così da generazioni. E non ha intenzione alcuna di cambiare. Vive e prospera. E quindi una prima mossa è cambiare la narrazione e capire che tutti sono vulnerabili e infiltrabili, anche il Pd. E che non è un accidente ma una banale esposizione al rischio che ogni partito ha. E che quindi a poco valgono appelli o espulsioni. Serve rimettere mano alla legislazione antimafia e al voto di scambio, punendo aspramente non solo chi compra ama anche chi vende il voto.
Altro aspetto è spostare il baricentro della Direzione Distrettuale Antimafia. Ampliandone la missione territoriale e focalizzando tutto su questo fenomeno. I governi precedenti hanno ampliato il novero delle competenze della DDA distraendola dalle sue funzioni originarie, e ottenendo una specie di blob che fagocita tante, forse troppe cose. Su questo il Pd può e deve fare la sua battaglia e proporre queste ed altri soluzioni per affrontare la sua crisi interna, combattendo il fenomeno nella sua interezza e non solo nell’atomistica rappresentazione che le inchieste attuali mostrano. Perché non sono un problema solo del Pd quello delle infiltrazioni mafiose, ma di sicuro è anche un suo, grave, problema.
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