Il primo novembre in Israele si tornerà alle urne per la quinta volta in tre anni, un dato che la dice lunga sull’instabilità politica che il paese attraversa ormai da tempo. Come un anno fa a confrontarsi è il blocco di destra, guidato dall’ex primo ministro Netanyahu, e quello di centro degli attuali leaders Lapid e Gantz.
Ma a differenza di allora, quando la coalizione anti-Netanyahu ebbe la meglio, oggi i due fronti nei sondaggi appaiono allineati, senza che uno dei due abbia una chiara maggioranza. “Quella coalizione che aveva portato alla sconfitta, per la prima volta dopo dodici anni, di Netanyahu si è di fatto sfaldata” ci ha detto in questa intervista Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme. “Israele è oggi un Paese sostanzialmente di centrodestra, ma allo stesso tempo assai diviso al suo interno”.
Secondo il maggior quotidiano israeliano, Haaretz, è stata una campagna elettorale “lunga e soporifera”. È così? Non ci sono stati momenti di dibattito, di scontro?
Non sono d’accordo con un commento del genere. Mi trovo a Gerusalemme da diversi giorni e non giudico soporifera questa campagna elettorale. Si percepisce invece una tensione molto alta, cosa che capita quasi sempre prima del voto in Israele. Anche questa volta le autorità politiche e militari hanno lanciato proprio a ridosso del voto una campagna militare per fronteggiare le nuove milizie formate da giovanissimi in Cisgiordania, il che vuol anche dire che l’attenzione si è spostata da Gaza a quel territorio, che ha provocato in pochissimi mesi un numero altissimo di vittime, oltre 110 persone uccise.
Una campagna che è conseguenza del terrorismo palestinese che a inizio anno provocò 18 morti in Israele?
Sì, una reazione molto dura con la finalità evidente dell’attuale governo di dimostrare di essere capace di garantire la sicurezza degli israeliani.
Sul piano interno invece come si schiera la società israeliana? È vero che nessuno dei due principali blocchi antagonisti avrebbe la maggioranza?
Sì. I sondaggi attuali danno una fotografia della società civile e politica veritiera. Israele da molto tempo è una società a maggioranza di centrodestra, dove la sinistra in alcuni momenti è diventata residuale e che ultimamente aveva trovato un elemento in più, la volontà di una parte della società al di là di destra e sinistra di puntare alla sostituzione di Netanyahu. Questo è accaduto lo scorso anno, ma si è subito visto come questa maggioranza anti-Netanyahu si è poi sfaldata e per questo si è giunti al voto anticipato.
Perché?
È una società divisa senza una maggioranza chiara, anche se l’orientamento è di centrodestra e questo spiega la rincorsa elettorale dei due partiti di centro di Lapid e Gantz verso questa base elettorale, con l’intento di catturare voti e sottrarli al blocco di Netanyahu. C’è da dire che in quel blocco sono emersi personaggi di destra che concorrono alle elezioni e che hanno segnato la campagna elettorale di Netanyahu su argomenti particolarmente cari alla destra estrema. Uno su tutti: il cambiamento dello status quo di Gerusalemme e la possibilità per gli ebrei di salire sulla Spianata delle moschee e assumerne il controllo. Questo è visibile anche in questi giorni, dove gruppi scortati dalla polizia salgono in continuazione sulla Spianata per riaffermare non tanto un elemento religioso, quanto di possesso.
Alle scorse elezioni si era assistito a un exploit dei partiti arabi che avevano portato in Parlamento 15 deputati. Oggi appaiono divisi, come mai?
Il motivo principale è l’accordo con il governo libanese accettato anche da Hezbollah con la benedizione di Biden sulla spartizione dei giacimenti energetici. Questo accordo tendeva a spostare il consenso verso Lapid e Gantz di una parte del mondo arabo che ha visto con sospetto quel tipo di azione, che invece si sta svolgendo nei territori palestinesi. I partiti arabi sono divisi, perché l’ingresso nella maggioranza del partito islamico e il modo con cui è stato trattato dagli altri partiti, in particolare da quello di Gantz, ha alimentato l’idea di una parte della comunità araba che la via del dialogo con gli attuali partiti israeliani laici e religiosi non sia ancora matura. Ma è una divisione che attraversa la società israeliana: quanti palestinesi con cittadinanza israeliana andranno a votare? Non sappiamo dirlo.
L’accordo con il Libano è stato criticato fortemente da Netanyahu, che lo vede come una concessione a Hezbollah: c’è il rischio che possa saltare?
Il rischio c’è, purtroppo. Farlo saltare non darebbe a Israele la possibilità di iniziare la produzione di gas naturale da inviare in Europa. Senza l’accordo con il Libano e con Hezbollah i giacimenti in zona israeliana sarebbero bersaglio dei razzi di Hezbollah e dal punto di vista strettamente tecnico un razzo che colpisca una piattaforma non è facilmente gestibile. Si andrebbe verso lunghi periodi di interruzione dell’estrazione che non è nell’interesse israeliano dal punto di vista economico. Poi ci sono ragionamenti politici di bandiera, che in questo momento sono l’unico aspetto nuovo della politica internazionale israeliana.
In che senso?
È prevalsa una intesa dettata da ragioni economiche, la necessità di incassare royalties da parte libanese e da parte di Israele di produrre gas e petrolio in una situazione di sicurezza. La domanda ha una risposta non definitiva, anche se non c’è mai cosa più stabile di un accordo provvisorio. Non bisogna dimenticare in tutto questo l’alto interesse dei petrolieri texani per parte israeliana e della francese Total per il Libano.
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