Ancora alla vigilia del voto olandese di mercoledì i media internazionali – soprattutto quelli di area progressista – ripartivano il loro wishful thinking fra la leader liberale Dilan Yesilgöz-Zegerius e il candidato dello schieramento rosso-verde Frans Timmermans. Il mix di pronostici e tifo è stato però clamorosamente smentito dalle urne: il primo partito olandese, a destra, è diventato il Pvv di Geert Wilders, che si è aggiudicato 37 seggi su 150 nella Camera bassa, più che raddoppiando la sua rappresentanza.
Yesilgöz-Zegerius – candidata del Vvd, erede diretta di Mark Rutte, premier uscente dopo esserlo stato per quattro volte ininterrottamente dal 2010 – è giunta solamente terza con 20 seggi. Non ha fatto meglio del neonato – e ancora fluido – contenitore centrista Nsc, promosso dal cristiano-democratico Peter Omtzigt dopo l’implosione estiva della maggioranza Rutte. Seconda forza politica all’Aja è invece la coalizione social-ecologista pilotata da Timmermans, fino a due mesi fa primo vicepresidente della Commissione Ue con la delega alla transizione ecologica. In un nuovo parlamento molto frastagliato non va trascurato l’exploit del Bbb: il “partito degli agricoltori”, di fatto al debutto, ha conquistato 7 seggi.
È possibile che Wilders non diventi premier, nonostante abbia immediatamente avanzato la sua candidatura. E appare ancora possibile che il Pvv (sovranista e anti-Ue) rimanga all’opposizione: se anche in Olanda – come negli ultimi giorni in Spagna fra socialisti e indipendentisti baschi e catalani – prenderà forma una qualche coalizione sedicente “democratica”, cementata unicamente dal mantra “fermare le destre”, a sei mesi dal rinnovo del Parlamento europeo. Certamente il segnale che giunge da un Paese del Nord Europa – fondatore della prima Ue nel 1957 – resta dirompente. Conferma anzitutto l’assoluta debolezza reale di due feticci correnti dell’Europa “politically correct”: quello “rosa” e quello “verde”.
Yesilgöz-Zegerius è stata lanciata come “prima premier donna” nella storia dei Paesi Bassi, peraltro con un’affannata operazione in provetta elettorale. Di più, il ministro della Giustizia e della Sicurezza nell’esecutivo uscente, è nata in Turchia: altra (ambigua) strizzata d’occhi anti-sovranista a un elettorato centrista/progressista supposto sempre ampio. Eppure “Dilan” aveva già condiviso con Rutte le difficoltà – alla fine insostenibili – di mantenere una linea “europeista” di apertura regolata ai flussi migratori con la crescente chiusura dell’opinione pubblica. Solo in campagna elettorale la “premier annunciata” (come Hillary Clinton nel 2016 in Usa) aveva tatticamente irrigidito le sue posizioni sulla questione. Ma il feticcio “rosa-plus” ha comunque drammaticamente fallito contro il realismo “nero” di Wilders: per il quale un immigrato è anzitutto un costo in più e un’opportunità in meno per un cittadino olandese. È sempre un’imposizione da parte delle élites, in primis della tecnocrazia Ue. E chi più di Timmermans – per dieci anni n. 2 della Commissione di Bruxelles – incarnava quel “feticcio”?
L’ex ministro delle Finanze socialista, non più rieleggibile in Europa, aveva deciso di giocare il suo ultimo match in casa: calando tutte le sue carte di “mandarino verde” Ue. Timmermans è stato l’alfiere-carabiniere di ogni “net zero” a scadenze inderogabili per ogni energia fossile a vantaggio di ogni fonte rinnovabile. In quanto tale è stato beniamino di molti (i giovani “gretini” piuttosto che i grandi investitori in energie alternative). È stato compiacente tacito di operazioni “riverniciate di verde” come il Superbonus italiano (Pd-M5s).
È però naturalmente – da sempre – la bestia nera di forze politico-sociali come i “gilet gialli” francesi e, nell’occasione, dei suoi connazionali impegnati nell’agricoltura: anzitutto qualche decina di migliaia di imprenditori zootecnici – spesso secolari – che il governo Rutte voleva far chiudere dietro indennizzo per rispettare i limiti imposti dalla Ue per le emissioni di biogas. Naturalmente quei voti sono stati fra i “jet” dei risultati-boom di Pvv e di Bbb. Mentre il “campo largo” fra socialdemocratici e verdi, l’altro ieri, ha raccolto il suffragio di meno di un elettore olandese su sei.
Il sondaggio si presenta decisamente allarmante per lo stesso fronte in vista del voto europeo; ma forse anche – già prima – per la coalizione rosso-verde sempre più in difficoltà in Germania: sugli stessi temi, sempre quelli: transizione energetica (in tempo di guerra), finanza pubblica (cioè sempre regole tecnocratiche decise a Bruxelles) e non-gestione “politically correct” dei flussi migratori, al quarto anno di crisi geopolitica e di stagflazione.
P.S.: fra quelli convinti che mercoledì il suo partito avrebbe retto bene e Wilders sarebbe rimasto in minoranza impresentabile e infrequentabile c’era lo stesso Rutte, Che negli ultimi giorni aveva spinto quasi al limite dell’auto-annuncio la sua candidatura a segretario generale della Nato, al posto dello norvegese Jens Stoltenberg. Ma forse non è stato un caso che – a urne olandesi già aperte – Dan Sullivan, senatore repubblicano statunitense veterano della commissione armamenti, abbia lamentato che l’Olanda si è sempre contraddistinta per un basso livello di spesa militare in ambito Nato. Non è un mistero che a Washington vi sia un ventaglio trasversale di fan-Nato della premier estone Kaja Kallas, meno profilata del premier olandese e più saldamente confinante con la Russia. Ma gli inattesi segni di “disgrazia” di Rutte sembrano un effetto collaterale in più del terremoto elettorale scatenatosi in un’antica liberademocrazia europea. Così come a Berlino, come riuscirebbe una coalizione “bianco-rosso-verde” all’Aja a conciliare i vecchi eurofeticci con i nuovi dettami della “ri-occidentalizzazione” euroamericana?
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