Fumata nera nel voto di ieri che doveva eleggere il nuovo giudice della Corte costituzionale. Per l’ottava volta consecutiva il Parlamento riunito in seduta comune non è riuscito a trovare l’accordo. È innanzitutto un problema di numeri: la maggioranza di centrodestra può contare su 355 tra deputati e senatori, mentre il quorum richiesto dalla legge è di 363 parlamentari. Dunque, l’apporto di qualche frangia dell’opposizione è essenziale. Ma per ottenere i consensi “esterni” indispensabili per scegliere il nuovo giudice costituzionale, è necessario negoziare. E questa è la seconda faccia della medaglia: una faccenda di numeri diventa immediatamente una faccenda di nomi.



Il nome in questione è quello di Francesco Saverio Marini, attuale consigliere giuridico di Palazzo Chigi, autore della proposta di riforma costituzionale del premierato che tanto sta a cuore a Giorgia Meloni. Si tratta di un fedelissimo della presidente del Consiglio, ma è pure una figura che potrebbe essere facilmente esposta al rischio di un “conflitto di interessi”: se la riforma del premierato, una volta approvata, dovesse essere portata all’attenzione della Consulta per valutarne la legittimità costituzionale, Marini potrebbe trovarsi nella scomoda posizione di giudice di una legge che egli stesso ha ispirato.



Nei giorni scorsi era circolato un messaggio riservato attribuito alla premier – quasi uno sfogo dettato dall’insofferenza – in cui venivano precettati i parlamentari di Fratelli d’Italia per il voto di ieri. Quando il centrodestra ha capito che non avrebbe avuto i numeri per eleggere Marini, ha votato scheda bianca per non bruciare il proprio candidato. Da parte loro, le opposizioni non hanno partecipato al voto. E alla fine hanno cantato vittoria. Dal suo Aventino – ormai il luogo fisso della Schlein – il centrosinistra compatto ha fatto emergere tutte le difficoltà attuali del centrodestra. Perché il problema è tutto proprio nella maggioranza, incapace non solo di proporre un nome accettabile anche fuori dal perimetro del governo, ma anche di allargare il consenso su una scelta che è istituzionale prima che politica.



Nel mare di schede bianche si riflettono le tensioni di questi mesi tra i partiti di maggioranza. Ma c’è da chiedersi se le difficoltà non provengano anche dall’interno stesso di Fratelli d’Italia, dove non a tutti piace che le luci siano indirizzate unicamente a illuminare la leader. E qui si torna ai numeri: i presenti e votanti sono stati 342, le schede bianche 323, le nulle 10, i voti dispersi 9. In 19, dunque, hanno contravvenuto alle indicazioni di voto. Al tempo di Silvio Berlusconi, il compito di mediare e convincere era affidato a Gianni Letta. Il Letta della Meloni è il sottosegretario Alfredo Mantovano, e forse anche lui in questa fase si trova in qualche difficoltà, tanto più che sono le sue mani di ex magistrato a trattare per prime i dossier riguardanti la giustizia. Sta di fatto che ieri il centrodestra ha accusato una sconfitta, frutto di una serie di errori e tensioni interne.

La presidente del Consiglio ha un solo motivo per consolarsi: l’aggravarsi della crisi mediorientale e le polemiche sulla prossima legge di bilancio hanno oscurato il passo falso sulla Consulta. L’effetto Meloni sulla comunicazione si fa ancora sentire.

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