Il dibattito che si è aperto sull’estradizione dei terroristi rifugiatisi in Francia sulla base della “dottrina Mitterrand” (che in origine, quando venne formulata nel 1985, escludeva però i condannati per omicidio) ha riportato in primo piano come gli “anni di piombo” siano ancora una ferita aperta non per desiderio di vendetta, ma – come è stato detto dagli stessi familiari del commissario Calabresi – per desiderio di verità. Anche Sergio Mattarella, in occasione della Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo, ha insistito su “verità ancora da chiarire”. In questo senso il caso Tobagi, l’assassinio del presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti il 28 maggio 1980, rimane un caso non chiuso.
All’epoca del processo, nel 1983, le polemiche furono accese in particolare per la sua conclusione: il tribunale, dopo aver pronunciato la sentenza di condanna degli assassini, ne ordinò l’immediata scarcerazione per il contributo dato come “pentiti”. I vertici dell’Associazione dei giornalisti ed esponenti socialisti (il documento dei terroristi condannava Tobagi come “uomo di Craxi”) contestarono la genuinità del “pentimento” sollevando due punti: 1. il testo di rivendicazione non era stato scritto dai giovani assassini, ma da persone che i “pentiti” coprivano; 2. i “pentiti” non si erano autoaccusati di fatti che gli inquirenti non conoscevano (requisito della legge del 1982), ma sin dall’inizio erano stati individuati grazie a un’informativa del dicembre ’79 che però era stata trascurata.
Anni dopo sono stati due autorevoli magistrati a condividere quelle contestazioni con argomenti molto forti sulla base di successivi approfondimenti da essi svolti.
Adolfo Beria d’Argentine, che era stato a fianco di Tobagi nel dibattito al Circolo della Stampa di Milano in cui veniva insultato da un gruppo di estremisti la sera prima di essere assassinato, diventato Procuratore generale della Repubblica a Milano riprese l’indagine sul “volantino” (che in realtà era un saggio di sei pagine sulla riorganizzazione editoriale capitalista da sabotare) che accusava Tobagi per essersi opposto al giornalismo “militante”. Insieme a un nucleo specializzato dell’arma dei Carabinieri, Beria mise a confronto le spiegazioni date dai “pentiti” di volta in volta: a) ai carabinieri, b) al pm, c) al giudice istruttore, d) in aula di tribunale con l’analisi data dopo il loro arresto da Craxi al generale Dalla Chiesa (33 pagine su due colonne: testo e fonti). La conclusione del procuratore generale fu lapidaria: “Il volantino di rivendicazione non è opera, almeno nella massima parte del testo, degli autori dell’uccisione di Walter Tobagi”. Per Beria era stato scritto da altri almeno “il novanta per cento”.
A sua volta il giudice Guido Salvini, che aveva indagato gli assassini già sul loro progetto di tentativo di sequestro di Tobagi nel 1978, più recentemente, nel 2018, approfondendo la questione dell’informativa è arrivato a due risultati: 1. Non c’è dubbio che gli assassini furono immediatamente indagati sulla base di quella informativa in quanto “a colpo sicuro” già pochi giorni dopo, il 4 giugno, scattarono i pedinamenti e poi le intercettazioni telefoniche su di essi; 2. vi furono più informative che vennero fatte scomparire: “Le informative giunte erano molto numerose”, quella del dicembre 1979 “si è salvata per caso” mentre “tutte quelle più importanti sono sparite”. Conclusione del giudice Salvini: “Se queste informative fossero state considerate con più attenzione si sarebbe potuto evitare quel che poi è successo”.
Sia Beria sia Salvini nelle loro considerazioni ci riportano al fatto che Tobagi venne ucciso non perché era un “simbolo”, ma sull’onda di una campagna di odio scatenata contro di lui perché aveva rovesciato la maggioranza tra comunisti ed estrema sinistra prima nel sindacato del Corriere della Sera (il cdr) e poi nel sindacato regionale (l’Agl) colpendo quello che Alberto Ronchey definiva il “soviet di redazione”. Mentre il Pci milanese guidato da Gianni Cervetti ed Elio Quercioli era intransigente e vigilante nei confronti dell’estremismo paventando il piano inclinato verso la lotta armata, L’Unità in aprile aveva definito “corvo della conservazione” e “anima antioperaia e antipopolare” Walter Tobagi perché in un articolo aveva denunciato l’infiltrazione brigatista nelle fabbriche, peraltro, con parole simili a quelle usate da un dirigente comunista come Giorgio Amendola.
Il delitto fu di stampo mafioso, come lo descrisse il generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro nel luglio 1980 quando già aveva individuato gli assassini: “Si erano spaventati tutti: dagli editori, ai direttori, agli azionisti, ai cronisti”. Secondo il generale “i cronisti ospitano nelle loro file certamente qualcuno che si è avvalso di killer per uccidere Tobagi”.
Il testo di rivendicazione ebbe infatti un rilevante effetto intimidatorio proprio per la “professionalità” della sua scrittura. Il messaggio terrorista alle redazioni era chiaro: “Siamo tra voi, vi teniamo d’occhio”. Così Dalla Chiesa chiariva la mafiosità terrorista: “Garantire all’eversione la soggezione di un’intera classe qual è quella dell’informazione”. Infatti, all’inizio del 1980, prima dell’assassinio – ricorda il generale – i giornalisti fiancheggiatori dei brigatisti, “i pochi che erano riusciti fino ad allora a rimanere mimetizzati nella massa, hanno corso il rischio di restare in evidenza”. E rileva: “Il fatto di Tobagi ha riportato tutti a un livello inferiore, mimetizzando anche quei pochi che temevano di rimanere in vista”.
Sono parole che dipingono quella “zona grigia” che a Milano ruotava intorno al terrorismo.
Ferruccio de Bortoli ricorda come in quegli anni “la violenza politica sembrava un male inestirpabile. Anche grazie a una diffusa zona grigia di accondiscendenza borghese alla protesta con le armi”. E ancora: “Il terrorismo degli anni di piombo si nutrì a lungo dell’ambiguità iniziale di partiti e sindacati, dell’ignavia di parte della cultura e del giornalismo che in qualche modo ne subirono il fascino perverso”.
La sentenza che avallava la verità ufficiale fu vissuta appunto come una sorta di amnistia della “zona grigia”. All’epoca prevalse ovviamente la priorità di spegnere i gruppi di fuoco. L’assassino-pentito venne usato in 24 inchieste: da Milano a Firenze, da Bergamo ad Avellino, da Padova a Perugia. Il delitto Tobagi annegò così in un maxiprocesso che riunificava 9 istruttorie in cui era uno degli 800 capi di imputazione con 164 imputati.
Quella sorta di amnistia per la “zona grigia” però lascia aperta la riflessione sul fatto che negli “anni di piombo” ci sono stati ragazzi ventenni spinti ad atti terroristici che hanno distrutto anche le loro giovani vite, mentre i più maturi e colti “mandanti” e cioè gli estensori del testo di rivendicazione – redatto con modello la sofisticata punteggiatura del filosofo stalinista Galvano della Volpe – hanno poi potuto svolgere con successo il loro ruolo di avvelenatori della democrazia italiana in successive avventure politiche.
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