Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti.
Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare.
Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.
Vent’anni fa, era già il 1988, poco prima della caduta del muro di Berlino. Il comunismo italiano era roba ancora dura a passare, con tutto il suo stalinismo rigido, il suo perbenismo di cooperative ricche anzi ricchissime, il suo anelare alla democrazia popolare.
Negli anni Settanta ero stato come molti, decisamente a sinistra, in quell’area anarcoide e ribelle che si respirava nella provincia milanese. Poi avevo incontrato qualcuno che aveva acceso uno sguardo diverso su di me e sulla vita tutta.
Nell’88 mi ero già sposato e facevo il giornalista musicale. Tutto ciò che veniva dal ribellismo autentico mi piaceva e in fin dei conti mi piace ancora un po’, se porta dentro l’irrisolto dell’uomo non autosufficiente.
I CCCP mi piacevano. Una band emiliana con questo nome – molti si ricorderanno: Unione delle repubbliche socialiste sovietiche – incredibile e pesante; incidevano dischi tra il punk e l’avant gard, in cui inneggiavano alla grandezza di Mosca e mettevano alla gogna proprio i luoghi comuni del comunismo pantofolaio di casa nostra. Facevano tutto questo un po’ in perfetta ortodossia e un po’ accasandosi in quel luogo culturale che potremmo chiamare anarchia, oppure coscienza critica di sinistra, una situazione che – a volte – può avere molti punti di contatto con l’estrema sincerità.
Avevano inciso “Socialismo e barbarie”, “Affinità – Divergenze tra il compagno Togliatti e noi del conseguimento della maggiore età”, ma anche canzoni come Emilia paranoica e Spara Jurij e se ne andavano in giro per l’Europa – paesi del Patto compresi – a cantare un punk che forse ad Est nemmeno capivano.
Alla fine dell’’88 i CCCP incidono il loro quarto disco, “Canzoni, preghiere, danze del II millennio”, un album che uscirà nell’’89 e sarà portato in tour in giro per l’Europa decretando successi, ma anche impietosi fischi da parte del pubblico.
Quando l’ho ascoltato la prima volta sono rimasto di sasso per una canzone, Madre.
“Madre di Dio e dei suoi figli, Madre dei padri e delle madri, Madre …oh madre mia, L’anima mia si volge a te”.
Un testo unico e breve per una canzone che si eleva pian piano come una litania post-punk, una laude sulle macerie del mondo, del comunismo, del socialismo, delle ideologie tutte, liberismo e fascismo insieme.
“Madre di Dio e dei suoi figli, Madre dei padri e delle madri, Madre …oh madre mia, L’anima mia si volge a te”.
Sulle musiche, corali e quasi sinfoniche, obbrobrio per una band che si era mossa dai suoni dei Sex Pistols, si elevava la voce di Lindo, declamatoria e urlante come al solito, ma questa volta non era tanto per elevare l’inno al kalashnikov, bensì alla Madre, quell’effige femminile tanto odiata, quell’icona tenera ed orante che addirittura la band aveva deciso di schiaffare in copertina del disco.
Nei dischi precedenti avevo la sensazione che dietro l’impatto dei CCCP si muovesse qualcosa di informe e poderoso. Dopo questo disco e questa canzone ne ero certo.
Poi, dopo il muro di Berlino, i CCCP hanno trasformato il loro acronimo nel geniale CSI – Consorzio suonatori Indipendenti. E per registrare il loro “Ko de Mondo” sono andati sulla punta di Finistere.
Per realizzare un servizio giornalistico ci sono andato, insieme ad alcuni altri colleghi. Lì, ho chiacchierato a lungo con Giovanni Lindo, con Zamboni, Maroccolo e Giorgio Canali. Una band come poche, ma Giovanni era la coscienza diversa, profonda.
Poi i CSI si sono sciolti, Ferretti ha proseguito in un cammino incredibile che l’ha portato a scrivere Il reduce e a partecipare al Meeting di Rimini.
Io ricordo ancora i giorni a St. Jean du Doigt, in cui fuori dalle interviste parlavamo di Pasolini e di Testori. Gli avevo chiesto se aveva mai sentito parlare di don Luigi Giussani. Gli avevo detto che Madre era una delle più belle canzoni che avessi mai sentito.
“Madre di Dio e dei suoi figli, Madre dei padri e delle madri, Madre …oh madre mia, L’anima mia si volge a te”.
Lui mi guardava storto, perché ha un viso storto, da affresco medievale: chissà cosa pensava…