Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti. Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.

Nei primissimi anni della loro attività, gli irlandesi U2 hanno prodotto una serie di canzoni decisamente radicate nella tradizione, nelle ribellioni e nell’esperienza della loro terra.
Figli legittimi dell’Irlanda giovane, figli ribelli, ma non esuli di una terra che ha sofferto, sepolto, pregato, costruito, bevuto e suonato per tutto il 20° secolo, i quattro U2 (ricordiamolo: il loro nome, pronunciato all’inglese, suona: “anche tu”) hanno scritto nei loro giovani vent’anni, canzoni che portavano a galla tutte le tensioni della loro piccola isola.
Una di queste è Sunday Bloody Sunday, dal fortissimo impatto storico-politico, considerata – a ragione – una delle più significative canzoni di protesta mai interpretate dal rock.
Il brano prende le mosse dalle due “domenica di sangue”, 21 novembre 1920 e 30 gennaio 1972: la prima lasciò morti sulle strade e una ferita così profonda che portò al definitivo e violento distacco dell’Irlanda dalla corona britannica, la seconda che provocò 13 morti a Derry e rischiò di condurre a una guerra senza quartiere per le strade dell’Irlanda del Nord.
Il fatto è raccontato come fosse contemporaneo, visto che nei primi anni Ottanta la battaglia tra cattolici dell’Ira e lealisti protestanti non era per nulla terminata. Ma in realtà il fatto storico irlandese è simbolo di altri fatti di violenza contemporanei a quel 1983: le guerre in America Latina, i focolai d’odio in Estremo oriente, i morti in Palestina e nell’Africa centrale, la guerra Iran-Irak.
Proprio nell’essere canzone che racconta mille guerre, mille violenze, tutte uguali nel loro fondo di dolore e morte, è l’occasione per un manifesto di nuova coscienza: nei concerti dal vivo, il vocalist della band, Bono, la presentava declamando: “this is not a rebel song”, questa non è una canzone di ribellione. Qualcosa interroga “dentro” il fatto, qualcosa muove “dentro” gli accadimenti della realtà.
Il testo declama: “Bottiglie rotte sotto i piedi dei bambini.Corpi sparsi attraverso la strada della morte. Ma non darò retta alla voce della battaglia. Ce la metterò tutta. Domenica, sanguinosa domenica. La battaglia è appena iniziata. Ci sono molti perdenti, ma dimmi chi ha vinto. La trincea è scavata nei nostri cuori. E madri, bambini, fratelli, sorelle lacerati. Domenica, sanguinosa domenica”.
La canzone è una sfida, ognuno è “mosso” non a una reazione, bensì a una nuova posizione di sé: per quanto tempo dovremo cantare questa canzone, quando già stanotte, già subito possiamo essere una cosa sola?: “Per quanto tempo dobbiamo cantare questa canzone? Per quanto tempo? Per quanto tempo… Perché stanotte… possiamo essere una cosa sola….Noi mangiamo e beviamo mentre loro domani moriranno La vera battaglia è appena iniziata. Per pretendere la vittoria, Gesù vinse”.
Quel Gesù che sbuca nel versetto finale, da dove salta fuori? Cosa rappresenta? Due degli U2, il cantante Bono (Paul Hewson) e il batterista Larry Mullen sono giovani cresciuti in famiglie cattoliche e abbeverati alla cultura irlandese.
I primi dischi della band sono ricchissimi di citazioni bibliche. Questi gli U2 degli esordi, una band che anche nei pub e più tardi di fronte a centinaia di migliaia di persone non esitava nel confronto “fastidioso” con quella presenza di certo non particolarmente “trendy” nel mondo delle sette note.