Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti. Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.

Ho sempre amato Eric Clapton. Fin da ragazzino. È sempre stato un personaggio che non esce dalle righe, che non “deborda”, che non esagera. Cresciuto suonando blues in una famiglia senza padre (ha scoperto solo pochi anni fa chi era, dopo decenni di ricerche: un militare canadese “di passaggio” in Inghilterra), Eric è stata la spina dorsale prima della riscoperta del blues all over the world, suonando con John Mayall, e poi facendo esplodere con i Cream la forma dell’improvvisazione e rendendo psichedelico il suono blues.
Clapton era già “slowhand” prima dell’avvento di Jimi Hendrix, e lo è stato pure dopo, per decenni alle prese con un temperamento intimista e depresso, ricorrendo a ogni sorta di sostanza stupefacente, ma anche scrivendo pagine di stupenda religiosità, come Presence of the Lord e Holy Mother (ne parleremo prossimamente), piccoli inni a quella devozione a cui l’ha educato la nonna, Rose.
Esattamente 40 anni fa la macchina musicale con cui Clapton è diventato “God” (come si leggeva sui muri londinesi negli anni Sessanta), si fermava. La macchina erano i Cream, un trio memorabile fatto da tre primedonne, tre primattori, tre protagonisti assoluti: Ginger Baker alla batteria, Jack Bruce al basso e Clapton, appunto, alle chitarre (a quei tempi quasi esclusivamenne Gibson, più tardi avverrà il matrimonio con le Stratocaster).
Dicevamo: la macchina Cream si ferma. Impossibile resistere ai ritmi di quegli anni, ma soprattutto impossibile vivere nel tritacarne di un rapporto umano tra Baker e Bruce, più vecchi di Eric e soprattutto portatori di una visione musicale in cui ogni strumento è protagonista e solista, ognuno improvvisa nel modo più selvaggio, ognuno può e deve dare libero sfogo alle proprie filastrocche melodiche.
Quando escono “Live Cream 1” e “Live Cream 2” e il doppio “Wheels of fire “(1968) si capisce che Cream dal vivo è un mondo a sé: gli oltre dieci minuti di assolo di batteria di Toad, il basso mostruosamente in primo piano di Spoonful, e soprattutto le dichiarazioni nelle interviste dei tre, fanno capire dove si sta spingendo l’esperimento Cream: «Ci stiamo rendendo conto che per la nostra musica non sono più sufficienti i dischi a 33giri: se fosse possibile registrare a 16giri lo faremmo, perché ci serve poter spaziare su un solo pezzo anche oltre i 20-30 minuti». Certo in quegli anni accadeva di tutto: in California i Quicksilver di Johnny Cipollina registravano oltre 20 minuti live di Who do you love (si trova su “Happy trails”), mentre anche i Grateful dead realizzano jam session live che superano i 20 minuit. Ma i Cream programmaticamente vanno oltre, forse anche perché la competizione interna è monumentale. Bene: il 25 e 26 novembre 1968 tutto si ferma: i Cream suonano i loro ultimi due “farewell concert”.
Nel concerto i tre sfoderano il loro repertorio: White Room, Politician Improvisations, Stepping Out, Sitting on Top of the World, Spoonful, Toad, I’m So Glad, Improvisations, Crossroads Blues.
Ma una canzone è la mia preferita, una di quelle con cui i Cream sono passati alla storia: Sunshine of your love. Una canzone firmata dai tre e uscita nell’album “Disraeli gears” (1967), una canzone che è un compendio di musica rock, capace pure di citazioni non-rock (Clapton nel suo solo cita Blue Moon, il classico di Rodgers e Hart).
A differenza di gran parte dei brani live dei Cream, Sunshine of your love (come d’altra parte anche l’eterna Crossroads) è un pezzo contenuto nel tempo, mai più di 5-6 minuti, eppure ha dentro tutta la forza tellurica dell’improvvisazione così come concepita dai tre Cream, e ha già quel “woman tone”, che il chitarrista si inventa nel gioco del suo pedale e dell’amplificatore Marshall, uno dei toni chitarristici più copiati nella storia del rock n’ roll.
Riguardare il dvd di quel concerto d’addio è da brividi assicurati, anche quattro decenni dopo. Tramontati i Cream, le cose sono cambiate, per tutti, nella musica rock. Inoltre dopo il “Farewell concert” Clapton, Bruce e Baker credevano di poter toccare il cielo con un dito, invece ognuno ha vissuto periodi duri. Eppure sono trascorsi 40 anni e – per fortuna – sono tutti vivi. Da qualche parte un sunshine è riuscito a risplendere su di loro…