Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti. Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.

Thom Yorke ha compiuto quarant’anni due mesi fa. La sua band, i Radiohead, è in circolazione dalla seconda metà degli anni Ottanta. Sono in cinque, si conoscono a Oxford e quasi tutti si laureano. Sono teste fini e crescono musicalmente ascoltando Pink Floyd, Soft Machine e Gong.
Il loro esordio è indissolubilmente legato a una canzone, uno dei più esplosivi esordi del rock: Creep. Brano che getta al macero l’esser belli degli anni Ottanta e Novanta, quell’essere stilisticamente perfetti e inutili, stupendi e vuoti, impalpabilmente deserti, prodotto inattaccabile del nulla. Una canzone che prima sussurra e poi ulula: «Quando tu eri qui prima, non riuscivo a guardarti negli occhi. Tu sei come un angelo, la tua pelle mi commuove, tu svolazzi come un piuma, in un mondo meraviglioso, e io avrei voluto essere speciale, perché tu sei così maledettamente speciale. Ma io sono una persona sgradevole, sono uno strano, cosa diavolo sto facendo qui? io non appartengo a questo posto». Ecco fatto, il mondo del look e dell’apparire mandato al diavolo. Ma più in genere il mondo dei rapporti umani, dell’uomo-donna, di quell’eterno gioco del rincorrersi, del corteggiarsi, del perché corteggiarsi.
E ancora di più: il luogo a cui appartengo, il “ciò” a cui appartengo, la domanda del “di chi sono io?”.
Yorke la pensa come una canzone amara, ma sostanzialmente intimista. È il chitarrista Jonny Greenwood, classe ’71, a trasformarla, irrompendo sul ritornello con una chitarra violenta e distorta, mettendo Creep su un piano diverso, portando l’ascoltatore su un segmento esistenziale diverso, acido, aspro, veemente.
Quando esce diventa un successo mondiale e traina il primo album della band, “Pablo Honey”, ai vertici delle classifiche un po’ ovunque. Un esordio così fulminante che per anni i fans continueranno a chiedere a gran voce Creep, finché – nel 1998 – Yorke e compagni decideranno di eliminare la canzone dai propri concerti. Dopo quegli esordi i Radiohead diventano una band di culto: metà Pink metà U2, tragicamente desolati nella loro descrizione del vuoto quotidiano, i cinque britannici alternano dischi accessibili e “per tutti” come “Ok Computer” a esempi di avant-garde rock come “Amnesiac”, dove le influenze elettroniche e classiche sono probabilmente superiori alle stesse influenze rock.
Più tardi Creep rientrerà in scaletta, ma sommersa dalle non-canzoni, dalle visioni sonore sempre meno standard e sempre più cerebrali.
Io li considero importanti, i Radiohead. Il loro tentativo di non volgarizzare la musica rock è… nobile e ha aperto la strada per decine di altre band “difficili”, come gli imperdibili Mars Volta. Però credo che Creep rimanga l’esempio migliore di creatività Radiohead: una band dalle grandi visioni, ma che nella loro canzone più facile ha dato il meglio di se. Proprio nel momento della nascita….