Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti. Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.
Chi è stato dalle parti di Kingston, Giamaica, sa cosa significa quando si parla di divario – enorme – tra ricchezza e povertà, tra agiatezza e stenti.
La domenica, vedi uscire dalla celebrazione in Sant Andrew le famiglie bianche che se ne vanno senza degnare di uno sguardo gli alcolizzati che dormono sulle panchine di Delacree Park.
Il quartiere di Trenchtown è off limits per i bianchi. Almeno per chi non vuole cercare rogne, anche se la sua First street è il luogo in cui Bob Marley ha trascorso parte della sua esistenza. Io preferisco ricordare l’atmosfera placida di Harbour Street, decadente e bianchissima, attraversata da suoni reggae di fronte all’Oceano, luogo di sogni e di melodie, anche perché il “regno” della musica giamaicana, il museo dedicato al grande Bob, che è proprio a Kingston in 56 Hope Road, ha un po’ il sapore del museo delle cere, anche se è oggettivamente a misura d’anima.
Da queste parti Bob Marley è cresciuto ed è diventato una leggenda. Da queste parti nel 1974 lui con i suoi Wailers hanno realizzato uno dei dischi più importanti della storia della musica pop, “Natty dread”.
Nell’ottobre di quell’anno Bob e il produttore Chris Blackwell, inglese di origine ebrea, entrano negli Harry J. Studios di Kingston. Due musicisti da sempre con Marley, Peter Tosh e Bunny Wailer, se ne sono andati proprio per i disaccordi con Chris e in circa tre giorni di lavoro Bob e i suoi quattro Wailers (a questi si aggiungono tre coriste, tra cui Rita Marley, moglie di Bob), registrano dodici canzoni: solo nove di queste entreranno nel disco finale. Almeno quattro di queste diventano parte della leggenda di Bob Marley: Lively up yourself, Natty dread, Rebel music e No woman no cry. Quest’ultima è probabilmente, insieme a Jammin’, il pezzo più famoso dell’intera discografia reggae.
La canzone è un lamento commosso, intimo, confidenziale: «No donna non piangere/ Perché io ricordo quando sedevamo/ Nel cortile ministeriale a Trenchtown/ Osservando gli ipocriti/ Mescolarsi alle brave persone/ Abbiamo buoni amici/ Oh, e buoni amici abbiamo perso/ Lungo la strada/ Con questo futuro grandioso/ Non puoi dimenticare il tuo passato/ Quindi asciugati le lacrime, ti dico/ No donna non piangere».
Una canzone piena di storia, piena di realtà. Il government yard in Trenchtown è un’ironia sulla decadenza di Kingston, priva fino agli anni Novanta dei servizi più elementari, gli ipocriti sono i delatori governativi, gli amici persi sono i giamaicani imprigionati e uccisi dal potere politico. Una canzone giocata in bilico tra umanità, speranza e ribellione, visto che in molti hanno voluto poi vedere nella “donna” che non deve piangere, la stessa Giamaica, costretta in condizioni da Terzo mondo.
Non ci sono sicurezze sull’interpretazione corretta, quindi ognuno si scelga quella che più corrisponde al proprio io, alla propria indole, al proprio sentimento personale.
Al di là delle incertezze e delle interpretazioni però, di sicuro rimane una cosa: che la canzone non è firmata Bob Marley. Chiariamo: No woman no cry è stata scritta da Marley, ma al momento del deposito dei diritti il musicista giamaicano ha indicato un altro nome come autore: Vincent Ford. Un personaggio che ha passato la vita a cucinare zuppe a Kingston. Vincent, infatti, è un cuoco. Si dice che abbia cucinato in un chiosco di Trenchtown fino a una decina di anni fa. Quando Bob era un ragazzino e viveva praticamente senza famiglia, Vincent “il tartaro” Ford gli dava da mangiare gratis. Spesso gli ha dato da dormire.
Bob ne ha parlato come di uno che gli ha salvato la vita. Inciso nel ’74, No woman no cry ha dato da vivere al signor Vincent Ford fino ai giorni nostri, con quel suo andamento lento e sognante, con quella sua melodia che entra sottopelle, dolce e triste insieme. Una melodia che sa di Giamaica. Ma soprattutto una melodia che sa di gratuità umana….