Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti.
Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare.
Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.



Un disco epocale, per la musica di casa nostra. Il suo titolo è “Nero a Metà.” Esce nel 1980 e lancia definitivamente un nome, quello di Pino Daniele, che fino a quel momento era stato legato ad alcune canzoni piene di nuova napoletanità oltre che all’ensemble di sperimentazione jazz-mediterranea dei Napoli Centrale.
Pino è un chitarrista fenomenale e con lui per la prima volta quella fucina di melodie e tradizioni che è la città partenopea da vita a qualcosa di contemporaneo, qualcosa in cui si riconoscono i giovani della città, qualcosa di vivo, di attuale, al di là dei Murolo, Peppino di Capri, Mario Merola.
Il disco ha un successo strepitoso in tutta Italia ed è una sfilata impressionante di grandi canzoni, ma la più concreta e carnale, e anche la più drammatica è Voglio di più, canzone di tante immagini, di speranze, di rabbie, di delusioni. Era il periodo dei cantautori “impegnati”, ma anche dei primi grandi riflussi nel “privato”. Era il tempo tragico delle stragi terroriste e delle coperture politiche al terrorismo stesso. Pino Daniele era una voce forte e cutanea: nulla di intellettuale, nulla di costruito, una voce che veniva dai vicoli del grande organismo vivente ai piedi del Vesuvio. Di fianco a lui c’erano musicisti imbattibili come Agostino Marangolo alla batteria, James Sanese al sax ed Ernesto Vitolo alle tastiere: una delle più grandi macchine del suono mai viste nell’Italia repubblicana. La voce sottile di Pino che canta «Voglio di più di quello che vedi» era un piccolo scompiglio per tutto il mondo musicale.
La canzone è tetra e forte di toni di denuncia, tra bambini che muoiono perché nati sotto un accento sbagliato o mani prestate alla violenza ben prima del successo di Gomorra. Il ritornello è più di un ritornello, è un programma umano, una dichiarazione di vita, di speranza, di rabbia: «Ma voglio di più/ di quello che vedi/ voglio di più/ di questi anni amari/ sai che non striscerò/ per farmi valere/ vivrò così cercando un senso anche per te».
Volere di più: è possibile vivere diversamente? Volere di più, volere un brandello di felicità.
È possibile crescere in una città o in un mondo in cui non ci si riconosce e adeguarsi? In fin dei conti Napoli è una metafora: una delle città più belle del mondo, dove però essere giovani equivale a non aver speranze (se non nell’emigrare), non è però forse lo stesso luogo in cui tutti crescono e vivono? Vivere non è forse “volere di più di quello che vedi” anche a Milano o Venezia o Roma? Ma in questa benedetta realtà c’è o non c’è quello che desideriamo? «Vivrò così, cercando un senso anche per te», dice Pino Daniele, segno di speranza che diventa dignità, magari piena di rabbia, ma sempre autentica. Speranza, dignità, rabbia, autenticità.
Peccato che in tutto questo manchi qualcosa… Qualcosa: cosa? Tanti anni dopo quel 1980, anno di “Nero a metà” (il titolo del disco si riferiva al sentirsi “metà bianco e metà nero”, mistura di cultura bianca e musicalità nera, intreccio sostanziale di blues e melodia mediterranea), percorrevo le strade di Napoli in compagnia di Alfredo Minucci, gran cantore di una nuova musicalità partenopea. Si parlava di tanti autori napoletani, Edoardo De Crescenzo, Nino Bonocore, Nino D’Angelo. Ma quello che veniva fuori sempre, quello che sovrastava tutti, era sempre Pino Daniele. «E poi “Nero a metà”, che è il disco più grande della storia di qui, quello che immancabilmente salta fuori quando si parla di musica». Lui diceva così e io – of corse – annuivo. E la speranza? Che ci si fa con la speranza, quell’attesa rabbiosa che spira dentro “Voglio di più”? «La speranza è la stessa che avevo io», mi confessa Alfredo «ed è la stessa che a un certo punto non avevo più. E infatti – come tanti – stavo pensando di andarmene, forse anche di piantarla lì con la musica». E poi? Cosa deve accadere alla speranza perché non si trasformi in rabbia? «Solo una cosa», dice l’Alfredo Minucci, «che incontri qualcuno». E lo diceva mentre guidava tra i vicoli del centro storico, tra motorette, polizia, clacson, bambini che corrono e bar che chiudono perché arriva la calda notte mediterranea…



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