Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti.
Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia.
Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.

Quando ho ascoltato questa canzone per la prima volta ero alle scuole medie superiori, l’ho sentita come una delle “mie canzoni” più care, più intense, più dense. Dietro I Shall Be Released c’è Bob Dylan.
Dietro questo titolo c’è la qualità della sua scrittura, delle sue visioni, del suo senso dell’umano. Eppure non è una canzone che ho sentito in primis interpretata da lui, bensì da The Band, l’immenso gruppo guidato da Robbie Robertson (torneremo presto su questo musicista straordinario…) che per anni ha accompagnato lo stesso Dylan. Il disco si intitolava “Music From Big Pink”, un album del 1968 che conteneva solo capolavori (un consiglio: sentitelo e risentitelo). Qualche anno più tardi la stessa canzone era una delle colonne di uno dei dischi rock dal vivo più belli di sempre, “Before The Flood”, una raccolta di gemme che spaziava da Like A Rolling Stone a The Night They Drow Old Dixie Down, da Blowin’ In The Wind (in un’entusiasmante versione rock) a All Along The Watchtower.
A quei tempi ero un ragazzino che ascoltava tanto rock con i suoi amici. Ci interessava ascoltare, divoravamo tutto quello che capitava nel nostro raggio d’azione, cose belle, cose brutte, cose strane, cose impegnative, cose leggerissime. C’erano canzoni con cui si “volava in America con la fantasia”, altre con cui ci si metteva con i piedi ben per terra, altre che avevano la forza di una profezia. Tra queste I Shall Be Released era la più vera.
Mentre molti hanno perso la testa in quegli anni, e molti non l’hanno più ritrovata, questa canzone è un di quegli squarci di realtà che mi hanno permesso di provare a essere me stesso. Dicono che ogni uomo ha bisogno di protezione/ Dicono che ogni uomo deve sbagliare/ Ma io giuro che vedo il mio riflesso In un qualche posto molto più in alto sopra questo muro/ Vedo la mia luce che inizia a brillare/ Da Ovest fino ad Est / Da un giorno all’altro adesso/ Sarò liberato. Che diceva Kafka? “In ogni momento voglio essere pronto per la salvezza”.
Il senso d’attesa del Dylan cantautore, del Robert Zimmerman dalle radici profondamente ebree, si fa qui estremo. In tempi in cui era facile – in giro per le piazze e le strade della provincia milanese dove sono cresciuto – sentire gente che intonava con Pete Seeger e Joan Baez We Shall Overcome come canzone nella quale riconoscersi (Noi trionferemo, un giorno…”), ho sempre preferito guardarmi alla luce di “da un giorno all’altro sarò liberato” perché ho sempre pensato che non ci si libera da soli: la forza di volontà e le buone intenzioni, le ottime idee e le fantastiche trovate del migliore degli affetti non salvano nessuno.
Interessante ricordare che gli U2 si “appropriano” di questa canzone nel 1986, quando girano l’America in lungo e in largo. Pubblicata su: “Before The Flood”, 1974, Asylum.