Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti.
Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia.
Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.
Un ingresso di chitarra acustica. Un intro perfetto: sembra musica Made in America. E poi la voce, il canto: “Le case le pietre/ e il carbone dipingeva di nero il mondo/ Il sole nasceva/ ma io non lo vedevo mai laggiù nel buio”. Non è un film. E non è nemmeno una canzone d’oltreoceano o della Francia del dopoguerra, è roba nostra, roba italiana. “Nessuno parlava/ solo il rumore di una pala che scava che scava”. Chitarra, cori, anche qualcosina fuori luogo, un arrangiamento ancora un po’ troppo da Italia anni Sessanta, ma non importa, perché questo è uno dei momenti in cui la canzonetta diventa nobile e lascia un segno.
Chissà cosa avevano in mente i liguri New Trolls mentre scrivevano Una Miniera nel 1969, quarant’anni fa. Di certo dietro l’ispirazione di questa canzone ci stanno fatti veri: tanti e tanti italiani andavano a lavorare in miniera tra la Francia e il Belgio. Nella canzone c’è tutto, la lontananza, le radici, l’amore lontano, che viene a galla, forte, tenero e clamorosamente musicale nel ritornello interpretato da un cantante strepitoso come Nico Di Palo: “Tu, quando tornavo eri felice/ Di rivedere le mie mani/ Nere di fumo/ Bianche d’amore”. È una storia, quella raccontata dai New Trolls. Storia di vita, di lavoro, d’amore. E nel suo svolgersi, sbatte contro la tragedia, perché la voce narrante svela che in “un’alba più nera mentre il paese si risveglia”, succede che la miniera inghiotte chi è nascosto nel suo ventre, lasciando “Paura, terrore sul viso caro di chi spera/ Questa sera come tante in un ritorno”.
C’è tanta cronaca dietro questa canzone. Nel 1956 a Marcinelle (Belgio), la terra inghiottì 262 minatori della locale miniera di carbone, tra cui molti italiani. Su quel fatto (che in quegli anni lasciò strascichi di cronaca e di dolore popolare) la giovane band ligure costruisce il suo primo successo, incluso in un disco – “New Trolls” – che dava già grandi scossoni rock (chi si ricorda canzoni come Davanti agli occhi miei e Sensazioni capisce).
La canzone italiana dimostra non solo di “essere pronta”, ma di essere già entrata nell’età adulta, di potersi confrontare con le coeve di mezzo mondo. Certo, magari si porta dietro qualche arrangiamento melodico e italico di troppo, ma ci si può fare il callo, se si pensa al profluvio di violini e di orchestrazioni inutili e fasulle che imperversano in certi pezzi dei Beatles. E inoltre val la pena ricordare che proprio i New Trolls da qui a poco daranno via a uno dei più pretenziosi, folli e suggestivi dischi dell’intera produzione del rock italiano, quel Concerto grosso in cui barocchismo, citazioni shakespeariane (“to die, to sleep, maybe to dream….”) e sonorità hendrixiane (i due bandleader Di Palo e De Scalzi erano due chitarristi notevoli; il primo dopo un grave incidente ha sostanzialmente lasciato l’attività musicale; il secondo è ancora in attività) costringeranno pure i critici inglesi a definirlo: “a fantastic example of symphonic rock experimentation”.
Un capolavoro melodico. Una trama e una costruzione cinematografica e non importa se alla fine si ritorna al via (anche dopo la tragedia il ritornello ricorda che “Tu quando tornavo/ eri felice…”), quel che conta è che tutto regge perfettamente, anche all’usura del tempo, e non sembra una canzone uscita dal lontanissimo 1969.
Se l’avessero incisa gli Eagles oggi mezzo mondo sarebbe qui a cantarla, come Desperado e come Hotel California (e anche da quelle parti c’erano miniere…..).