Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti.
Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia.
Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.

Che gli dici alla tua “lei”? Che può dirti “lei” se ti ama davvero? Che gli dici ad Elisa, se sei sincero fino in fondo? Quel simpaticone di Robert Smith ci deve aver pensato bene prima di scrivere questa canzone e inciderla con i suoi Cure, nel 1992, sull’album Wish (Elektra).
Qualcuno potrà dire: una canzone d’amore da parte della band “cupa” per definizione rischia di essere un po’ inquietante e ha ragione. Ma facciamo il classico passo indietro. Quel mondo musicale un po’ strano e gufesco che una volta veniva chiamato “dark”, oggi non è più molto in voga. Gente vestita di nero, che strizzava l’occhio a tutto ciò che era emaciato e pieno di spleen, musicisti che amavano (e amano ancora) farsi adorare per le loro introspezioni decadenti, tristi e solitarie, che inneggiano alla depressione metropolitana e alla solitudine più o meno frustrante.
I Cure sono la band che sopra ogni altra ha interpretato la dark culture. Britannici, nati nella seconda metà degli anni Settanta per opera (appunto) di Mister Smith, i Cure hanno alternato visioni di tetro nichilismo con momenti sonori di terrificante desolazione, tanto per dire: su questa terra non c’è da divertirsi. Ma nel marasma auto-distruttivo e auto-commiserante di tanto rock, Smith ha scritto momenti di assoluta e tragica verità. Soprattutto nella sua capacità di ricordare – periodicamente – che la realtà è insufficiente e reclama sempre altro. Sguardo eccezionale sulla necessità d’altro, Letter To Elise è una canzone impressionante.
Ci amiamo, cara Elisa, ma proprio perché ti amo ho bisogno di dirti che c’è bisogno di altro. «Oh Elisa non importa cosa dici/ io proprio non posso stare ogni volta il giorno dopo/ e continuare ad agire nello stesso modo/ nel modo in cui noi agivamo/ …/ e fingere di non aver mai avuto bisogno/ di niente di più di questo». Gli occhi di Elisa non mentono. Se potessero farlo, «almeno io potrei perdere questa sensazione di avvertire/ qualcos’altro/ che si nasconde da me e da te». Se almeno loro, quegli stupendi occhi blu potessero dire un brandello di menzogna, quella sensazione di «avvertire qualcosa d’altro che si nasconde da me e da te»  potrebbe finalmente andare a quel paese… E invece no. Un amore non basta. Nemmeno gli occhioni blu. E nel gioco dell’impossibilità ad avere il tutto dal particolare, anche il particolare inizia a sfuggire, «scivola via tra le mie mani chiuse…»:

Dimenticare
e fingere di non aver mai avuto bisogno
di niente oltre a questo
di niente oltre a questo
e ogni volta che provo a raccoglierlo
come sabbia che cade
scivola via tra le mie mani chiuse…

Tragici Cure. La canzoncina – dal punto estetico e formale – è semplice, arriva con una melodia quasi filastrocca, senza eccessi: certi temi, certe confessioni a volte non han bisogno di tragicità nella confezione. Eppure: disperatissimo Robert Smith, che gli eccessi di alcol, sostanze stupefacenti e il cupismo programmatico l’hanno fatto celebre con il nickname “desperated King”.

Un consiglio: se qualcuno si prendesse la briga di guardare nei meandri di questa canzone, di questo testo, ci troverebbe molto più che in tanti pseudo-colti-dotti-umani-interiori autori o commentatori della nostra cara pseudo-civiltà contemporanea.

(Walter Gatti)