In giro, negli anfratti poetici, politici, culturali e canzonettari della produzione italiana, non ci sono tante canzoni come Ciao ragazzi di Adriano Celentano. Sarà per la forza del suo impatto melodico, sarà per il “ciò che riesce a dire”, sta di fatto che con questa canzone l’Adriano ha fatto centro in modo sorprendente.
Era il 1965 e nessuno poteva prevedere cosa sarebbe accaduto negli anni successivi; eppure il ragazzo della via Gluck, più o meno profeticamente, con la sua forte carica umana e religiosa, scrive e interpreta questa canzone (coautori sono Mogol e Miki Del Prete), che pare una delle grandi canzoni americane di quei tempi:
Ciao ragazzi ciao
voglio dirvi che
che vorrei per me
grandi braccia perché
finalmente potrei
abbracciare tutti voi
Se potessi vi abbraccerei tutti: piccoli & grandi, bianchi & neri, ricchi & poveri. Ma non finisce tutto “solo” qui, non è una riedizione italiana del «black and white together», c’è dell’altro:
Ciao ragazzi ciao
voi sapete che che nel mondo c’è
c’è chi prega per noi
non piangete perché
c’è chi veglia su di noi
Fidatevi – canta l’Adriano nazionale -, perché qualcuno veglia su di noi. Dal punto di vista musicale è una classica canzone soul: potrebbe benissimo figurare in una delle produzioni di Muscle Shoals, la capitale della soul music, città da dove sono partiti per la conquista del successo i vari Otis Redding, Aretha Franklin e Solomon Burke. Impianto soul, ritmica e fiati da black music, testo dall’impatto fortemente umano. Ma sopra tutto c’è quel «Vorrei per me/ grandi braccia perché / finalmente potrei / abbracciare tutti voi».
Nel 1965, anno di uscita della canzone come 45 giri (il retro era un rock-blues dal titolo Chi ce l’ha con me; anche questo bellissimo, ma più problematico: «Quanti sguardi neri / Quanti volti scuri / Quanti occhi che / Che s’accendono su me / Ma chi ce l’ha con me?»), un pezzo così si discosta da tutto quello che c’era in circolazione. Le canzonette tradizionali stavano iniziando a mostrare il fiato corto, la nascente canzone d’autore aveva altri temi al proprio arco. Celentano parte dal suo essere figlio di popolo, figlio di una famiglia religiosa, incapace di staccarsi da certi temi-valori, incapace di pensare a un futuro senza quell’abbraccio e senza Colui che «veglia su di noi».
Mancano tre anni al Dio è morto di Guccini e al bisogno di cantare di una realtà (anche religiosa) che comincia a traballare; Celentano sente il bisogno di dire che in tutto quello che accade, cambiamenti o incomprensioni, lui vorrebbe abbracciare tutti e – per dare speranza a chi sta iniziando a non ritrovarsi più – ricorda che qualcuno «veglia su di noi». Questo è ciò che potremmo definire un atteggiamento cristiano verso la realtà. Da quel giorno l’Adriano non si è mai mosso da quella posizione. A partire da qui (come anche da Chi era Lui e Pregherò, versione italiana dello Stand by Me di Ben E. King) gli han dato del predicatore.
Definizione che non lo abbandonerà più negli anni successivi: prima quando si divertì a cantare che «chi non lavora non fa l’amore» (puoi pure scioperare, ma se non hai un barlume di senso nel rapporto con tua moglie, sei un fallito lo stesso), poi quando si spinse a criticare «un albero di trenta piani» (costruire, cementare, innalzare: non sempre il mondo degli uomini è fatto a misura d’uomo), poi ancora quando ricordò che non c’è scampo alla «pubblica ottusità». Sarà per quella voce indimenticabile, sarà per la sua vena rock primigenia, sarà per il suo essere imprevedibile e terraterra: se Adriano Celentano è riuscito a lasciare un segno è anche per quel confronto con il mondo e con la vita sempre realizzato a partire da poche cose chiare. E per questo lo definirei uno dei pochi musicisti e interpreti realmente e profondamente cristiani della canzone italiana.