Pianista e songrwriter newyorkese, Kenny White non è un nome notissimo anche se ha lavorato con mezzo mondo rock, da Linda Ronstadt a Shawn Calvin, da Aaron Neville a Marc Cohn e Peter Wolf.

Kenny ha passato gli anni al Greenwich Village scrivendo musiche per spot commerciali di grande successo e non gli è rimasto troppo tempo per incidere propri dischi e infatti, dopo oltre venticinque anni di professione, ne ha realizzati solo quattro a suo nome.

Il quinto, “Comfort in The Static”, è uscito in questi ultimi mesi, ed è di altissimo livello, uno di quei prodotti (sempre rari, ormai) che val la pena ascoltare e riascoltare.

Con White ci si trova avvolti in una suggestione musicale che accoglie la semplicità di scrittura di Paul Simon e le influenze dalla fantasia pianistica di Randy Newman, come dimostrano pezzi perfetti come Useless Bay, What Good Would That Do Me Now e Last Night, mentre Please e Out Of My Elements paiono brani beatlesiani riletti alla luce di suggerimenti di Joe Jackson.

Classe jazzistica e suggerimenti bluesy come ovvio per un newyorkese rendono metropolitane le atmosfere di She’s Coming on Saturday, mentre in Gotta Sing High Kenny conferma di avere in testa idee particolarmente chiare anche in tema di canzone e successo (testo stupendo e ironico che gioca su come si fa ad avere una hit in classifica e il proprio nome rintracciabile su Google).

 

Nelle undici ballate di questo album notevole che si tiene cautamente lontano dai lidi del rock e che stupisce perché stranamente privo di cadute e di canzoni brutte (o bruttine), c’è una vetta, Carry You Home, che varrebbe da sola i soldi da spendere per il cd.

A differenza delle altre composizioni più lineari qui il pianista di New York costruisce per stanze, con l’incalzare di un impressionista, narrando con intensità verbale e cromatica il caos di un presente che sfugge al controllo di chi cerca di viverlo pur risiedendo nella città che per antonomasia è “capitale del mondo”.

Kenny racconta trafelato di un mondo stanco di mani che toccano, ma senza calore e pulsazioni, di rivoluzioni che partono solo se sono sponsorizzate, di gente che deve dimostrare la propria età, di friabili idoli televisivi per teenagers, di notizie che ci danno tutto tranne che la verità.È una rincorsa inattesa nell’Occidente caotico (si nasconde qui il senso del titolo di tutto il cd) che si stoppa solo nel vocalismo classicamente gospel dello pseudo-ritornello, che ricorda, come fosse un coro da tragedia greca che commenta la scena, “tutto sta andando bene, non sentirti così solo, Gesù ti riporterà a casa”.

Con questo suo accurato racconto dell’oggi sul limitare dell’insensato, Kenny White ha scritto una canzone fascinosa e potente, ritmicamente contagiosa e di grande coinvolgimento, una delle più belle tra quelle che ho ascoltato negli ultimi mesi, perla di un disco importante.  Le ultime parole di Carry You Home sono:

 

 

“Questa macchina è fuori controllo/ Tutto sta andando bene/ Non sentirti così solo Gesù ti riporterà a casa”, cantate su un crescendo pianistico-percussivo e con la band che spinge in studio come fosse sul palco di un grande concerto live. Caos, cambiamento, ritorno a casa, il Figlio: parole che fan pensare ad altre mille scritte e cantate sullo stesso tema nei decenni andati, da Dylan o da Sam Cooke, da Marvin Gaye o da Prince, in quel grande solco americano che vede sempre qualcuno mettere in musica i momenti in cui c’è la chiara percezione che le cose della realtà sono in movimento.

E se Kenny White stesse interpretando uno di quei momenti? E se fossimo vicini ad un cambiamento importante e lui fosse uno dei musicisti che gli offre musica e voce?