Quante vite hanno i blues? Quante storie raccontano i blues? Mai una sola, bensì decine, centinaia, migliaia. Quando Memphis Slim (al secolo John Chatman) scrive Everyday i have the blues, lo fa entrando di diritto nel solco degli autori di classici. Siamo nel 1949, lui vive a Chicago e il tema di cui racconta è un chiodo fisso: il blues non è qualcosa che si suona, ma qualcosa che si “ha”. Non è una forma d’arte, ma una condizione della vita: per il fatto stesso che campi, ce l’hai:
Ogni giorno, ogni giorno ho il blues addosso
Ooh ogni giorno, ogni giorno ho il blues addosso
Quando mi vedi preoccupato, sì è perché sei tu che non voglio perdere
Nel 1955 Everyday entra nella scaletta di Beale street Blues Boy King, più familiarmente B.B. King. E’ qui che questo brano vive la sua seconda vita. arrivato al successo negli anni Cinquanta, il bluesman di Indianola, Missisippi, è diventato negli anni uno dei riferimenti universalmente riconosciuti del blues. A differenza di Muddy Waters, Willie Dixon e Buddy Guy, tanto per dirne alcuni, che han fatto di Chicago la patria del blues elettrico, BB ha sempre gravitato su Memphis (dove a un certo punto ha aperto un suo celeberrimo blues club e in un’intervista mi confessò che non ce la faceva proprio a vedersi lontano da quella città). E questo blues è diventato parte integrante della sua leggenda senza contare che è pure il titolo scelto per la sua biografia, scritta nel 1995 da David Shirley. Dicono le sue parole:
Nessuno mi ama, nessuno sembra occuparsi di me
Però di guai e preoccupazioni, ne ho avuto la mia buona parte
Perché ogni giorno, ogni giorno ho il blues addosso
Sin qui le vicende di Memphis Slim e del grande BB, ma c’è una terza vita per questo blues e parte da Spartanburgh, città bianca del North Carolina. Qui negli anni d’oro del southern rock, un chitarrista ex-marines (e reduce del Vietnam) fonda una delle formazioni musicali che amo di più, la Marshall Tucker Band. Il suo nome è Toy Caldwell, cento chili di pura creatività, un misto di blues, country e bluegrass. Nel mezzo del suo periodo migliore, la MTB produce un disco capolavoro, Where we all belong (metà live, metà di studio, un disco con titoli epici come Rambling on my mind, 24 hours a time e Try one more time) in cui sfavilla una versione di Everyday di oltre dodici minuti. Toy Caldwell è l’autentico deus ex machina del pezzo: canta e fa da lead guitar, imposta cinque sensazionali cambi di ritmo, guidando la band e la platea nella scoperta di un rock blues veloce prima di passare a fasi lente, ad altre mazzate potenti ad altre ancora che profumano di bluegrass.
Un po’ come aveva fatto Duane Allman in You dont love me (anche qui: oltre sedici minuti di blues con mille improvvisazioni), Toy espone l’armamentario del blues senza risparmio alcuno, assecondato da una sezione ritmica poderosa, suonando lui con una tecnica bizzarra da autodidatta (suona senza plettro, con il solo pollice destro sulle sei corde della sua Gibson).
Son rimasto senza fiato la prima volta che ho sentito questa versione e rimango di sasso ancora oggi, anacronistico e impossibile in tempi di attenzione musicale ridotta a meno di quattro minuti. Dopodiché penso alle mille vite di questo brano, da Memphis Slim a Lowell Fulson che lo suonavano a Chicago, da B.B. King che ne ha fatto uno dei suoi standard, per arrivare a Toy e agli altri della Marshall. Se è vero che un classico è un titolo che si tramanda da interprete ad altro interprete, cambiando pelle e riuscendo sempre a mostrare dei singoli interpreti le note più nascoste e le ispirazioni più profonde, ecco, dunque, che Everyday i have the blues è un classico nel senso migliore del termine.
Toy è morto d’infarto nel ‘93, vittima di tre decenni di vita on the road. BB è ancora il più vecchio maestro del blues vivente, l’ultimo rimasto, dopo la scomparsa di Johnny Lee Hooker. Anche un secolo dopo la sua nascita sono sempre tanti quelli che hanno il blues. Speriamo che aumentino sempre di più…