Era il Natale del 1970 e Fabrizio de André aveva trent’anni. Più o meno l’età che ha oggi Francesco Silvestre dei Modà o Fabrizio Tarducci, in arte Fabri Fibra o Tiziano Ferro. In quei tempi di manifestazioni, occupazioni, attacchi al potere, detronizzazioni dei sovrani e demitizzazione delle religiosità popolari, il ligure De André, ancora radicato nella tradizione della chanson francaise, aveva appena dato alle stampe un disco bellissimo e controverso, poetico e insolito chiamato La buona novella, tratto dai cosiddetti protovangelo di Giacomo e al Vangelo arabo dell’infanzia.
Mentre la gente si addobbava i presepi, giravano per le case italiane (non alla radio: c’erano il primo e il secondo canale e non diffondevano di certo queste canzoni) dieci canzoni di provenienza strana, perché all’origine ci stava un’intuizione del produttore spezzino Roberto Dané, amico di Giorgio Gaslini e di Antonello Venditti, che voleva dar vita a un album perfetto e fors’anche furbo per quegli anni tesi: un concept album che raccontasse l’umanità di Cristo vista dall’angolatura dei racconti apocrifi, non ortodossi e non convenzionali, e quindi meglio accettati dalla cultura ribelle del tempo, giovanile e non.
Le idee, come d’abitudine, hanno bisogno di personalità per camminare: De André prese la proposta di Dané e la trasformò in uno dei dischi più forti dell’intera discografia italiana. In un celebre commento, lo stesso cantautore ebbe poi a dire: «Quando scrissi La buona novella si era in piena rivolta studentesca e le persone meno attente consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi… Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La buona novella è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali»
Così prese il largo questo celebre disco di De Andrè, il suo quarto, con una narrazione a tratti lirica, a momenti ostica e anche furbetta, che tocca una gravidanza di Maria non troppo “miracolosa” (Il sogno di Maria) un’Ave Maria decisamente terrena, una dolorosissima Via della Croce, un tragico confronto tra le Tre madri (Maria e quelle dei due ladroni), Il testamento di Tito, ladrone non pentito, e il finale Laudate hominem, conclusiva celebrazione di un Gesù solo uomo, “Non posso pensarti figlio di Dio; ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”.
Nel disco l’anarchico e mangiapreti De André tocca punti di autentica commozione: Maria che intravede il futuro terribile del figlio (“Alle piaghe, alle ferite che sul legno fai, falegname su quei tagli manca il sangue, ormai, perché spieghino da soli, con le loro voci, quali volti sbiancheranno sopra le tue croci“; Maria nella bottega d’un falegname); il ladrone che ha sempre spregiato ogni singolo comandamento ma che di fronte al volto morente di Cristo rimane sgomento (“Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”; Il testamento di Tito) e soprattutto la differenza tra il dolore di Maria e quello delle madri dei due altri crocefissi, dove il gioco umano-divino si fa definitivo con una frase che echeggia Peguy: “Non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio” (Tre madri), a dimostrazione che la divinità cacciata dalla porta rientra dalla finestra.
Nei suoi chiaroscuri, nelle sue scelte anarchiche, nel De André che poi dirà «ho inciso questo disco perché Gesù Cristo è il più grande rivoluzionario della storia», c’è un disco di grande portata storica.
Rifissiamo alcune date: siamo nel 1970, piena in epoca di contestazioni e di messa in discussione del tutto già acquisito. De André incide un disco che ruota attorno alla figura di Gesù. Si dirà: un disco mosso dalla necessità e dalla voglia di smitizzare, di togliere il Messia dagli altari di una chiesa asservita al potere, come si diceva in quei giorni. Perfetto. Con tutte le motivazioni del clima degli anni Settanta, rimane un fatto: La buona novella è un disco che aveva come soggetto unico Gesù Cristo. Il suo essere nato, vissuto, morto, con una madre, un padre, una storia, un suo tempo, gente attorno a lui. Gesù Cristo era un fatto, un nome, un personaggio ancora di immenso interesse, capace di suscitare ancora un così grande posizionamento di schieramenti, da diventare nelle canzoni di De André un personaggio per tutti con cui confrontarsi. Nemmeno De André con la sua generazione potè fare a meno di averci a che fare.
Certo sul De André religiosamente anarchico è già stato detto molto. Il suo era un ateismo pieno di sacralità, che si è espresso in canzoni dal tono evidentemente religioso, visto che nel primo suo disco,Volume I, inserisce Preghiera in gennaio in memoria dell’amico Tenco («non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio…»), come poi Spiritual e Si chiamava Gesù; poi nel celebre indiano (1981) intona con Mark Harris un’Ave Maria sarda per non parlare della commovente e ultimativa Smisurata preghiera.
È il De André che subito dopo il rapimento e la prigionia sul Supramonte ebbe a dire «Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità… Ma, tuttavia, col sequestro qualcosa si è smosso. Non che abbia cambiato idea, ma è certo che bestemmiare oggi come minimo mi imbarazza».
Ma tutto questo fa parte di un percorso umano e di un discorso artistico che ora lasciamo sullo sfondo, come un suggerimento. Rimane il fatto, che invece appare imponente, della Buona novella, del suo tema, del suo ineludibile contenuto, cioè l’emergere di un disco dove Gesù Cristo, la sua venuta natalizia e la sua morte in croce, è una figura con cui fare i conti: meglio una bestemmia di uno sbadiglio.
Ci fosse oggi un Fabbri Fibra, un Ferro, un Mengoni, un signor Modà, coraggiosamente in grado di fare in conti con i fatti più o meno apocrifi del Gesù storico. Il Natale invece arriva ed è la festa dell’albero, di quei buzzurri di Babbo Natale aggrappati ai balconi delle case di mezza Italia, degli spritz e di X Factor. Davvero siam certi che non c’è più bisogno di Buona Novella?