Questa è una giornata di celebrazioni: l’Unità d’Italia si è imposta nella vita di tutti, tra bandiere sventolanti, festeggiamenti, fughe al bar durante l’inno, Benigni che declama emozionando (nonostante qualche svarione storico-sociale), pensieri deboli e dimostrazioni di coesione più o meno posticce, Napolitano che ricorda il Risorgimento, Borghezio che s’infervora dichiarando tutto una pagliacciata. Spettacoli a volte non belli, tra chi bruciava i tricolori in piazza e oggi ne reclama la funzione catartica e chi pare nato stamane, senza memoria e senza giudizio critico su una trentina di lustri in cui tutti – da Milano a Napoli, da Trieste a Palermo – hanno dato e preso perché arrivassimo nel bene e nel male a dirci italiani.

Tante canzoni potremmo scomodare nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma due affiorano prepotenti, scritte e cantate da gente che non ha l’ovvietà come ingrediente. La prima, ruvida e acida come si conviene al suo autore, Giorgio Gaber, è Io non mi sento italiano, titolo pubblicato nel disco postumo omonimo del ‘93. Canzone che già nel suo incipit contiene tutto l’oggetto del contendere: 

Io G. G. sono nato e vivo a Milano
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Ideali e retoriche, inno di Mameli e stendardi, guerre di indipendenza e bassezze attuali, retaggio culturale e bonomia sociale: Gaber passa in rassegna molte dei nostri vizi e virtù su uno di quei bei ritmi swing che stavano bene sulle canzoni della mala milanese.

Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell’inno nazionale
di cui un po’ mi vergogno


Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po’ sfasciato.

Canzone disfattista? Testo leghista? Il cantautore milanese non era senza dubbio un cuore incasellabile (chi si ricorda di Cos’è la destra, cos’è la sinistra saprà di cosa fosse capace, dal punto di vista della demitizzazione delle barricate) e anche qui lo conferma, chiamando le cose con il loro nome. E anche qui Gaber tira fuori il suo finale a sorpresa, con tanto di cambio di marcia e direzione, pur nella constatazione dei guai tricolori precedentemente elencati:

Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui m’incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos’è il Rinascimento.

Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.

Sarà consolatoria, ma la conclusione è precisa: la dignità del presente in barba al pessimismo senza memoria.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna
lo sono.

L’acidità di Gaber (che trovo molto più autentica dell’indignazione pur intensa della Povera patria di Franco Battiato, quella di “Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni/Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?/ Nel fango affonda lo stivale dei maiali/ Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali/che possa contemplare il cielo e i fiori/ che non si parli più di dittature/ se avremo ancora un po’ da vivere”) pare stemperarsi in uno sguardo smaliziato e in fin dei conti autenticamente italiano, con quel doppio finale “per fortuna, per fortuna”.

C’è meno asprezza e più discanto nell’osservazione delle patrie debolezze nell’altra canzone che questa giornata ci ricorda, quel Viva l’Italia scritta da Francesco De Gregori nel ’79 e da cui ha preso nome uno dei suoi dischi più belli. Anche qui c’è la descrizione per immagini e associazioni della nostra terra, fotografata in un periodo tesissimo, ma ogni strofa – e qui c’è il vero senso di tutto il brano – conclude con un senso di ripresa

Viva l’Italia
L’Italia liberata
L’Italia del valzer
E l’Italia del caffe’
L’Italia derubata 
E colpita al cuore
Viva l’Italia
L’Italia che non muore

Viva l’Italia
Presa a tradimento
L’Italia assassinata
Dai giornali e dal cemento
L’Italia con gli occhi asciutti 
Nella notte scura
Viva l’Italia
L’Italia che non ha paura

Anche qui De Gregori evita le possibili retoriche: c’è “l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare,
l’Italia metà giardino e metà galera
”, ma c’è anche il coraggio di dire “Viva l’Italia, l’Italia tutta intera”, il tutto trascinato da un ritmo-ballata ricco di strumenti e pienezza acustica. Non sono canzoni politiche in senso stretto, non apartengono a qualcuno più che a qualcun altro, eppure sono testi fortemente politici e umani, civili e personali, in grado di dare qualche motivo di pensiero e coscienza a tutti, padri e figli, adulti e ragazzini (che ormai nelle scuole quasi non sanno cosa era l’educazione civica che una volta offriva qualche brandello di pensiero).

Certo ci sono anche tanti altri modi di pensare a questa giornata, con le canzoni di Toto Cutugno o dei Nomadi, con gli slogan di Vendola o di Castelli, con le trasmissioni di Vespa o Lerner. Nel mio piccolo, sarò retorico, ma mi piace pensare con Gaber che sono italiano “per fortuna” e quindi, con De Gregori, penso “viva l’Italia/l’Italia che resiste”.