C’è qualcosa nell’acqua di Duluth, che rende particolarmente interessanti i (pochi) musicisti che vengono da quelle parti? Qualcosa nell’aria di questa città distesa sulle rive del Lago Superiore che fa si che le canzoni del suo figlio più celebre, Bob Dylan, diventino immortali? C’è qualcosa nelle notti di luna piena di questo centro del Minnesota che fa si che anche un trio di nicchia, i Low, siano in grado di produrre musica affascinante e singolare? Ignoro la risposta.

Di certo so solo che i Low, attivi dalla prima metà degli anni Novanta e sempre guidati dal chitarrista Alan Sparhawk, sono un trio ricco di idee e povero di fama nel quale militano anche Mimi Parker (moglie di Alan, con il quale ha pure generato due bimbi) alle percussioni e Steve Garrington al basso. Una manciata di dischi nel loro passato (consiglierei Trust e The Great Destroyer) con bei produttori come Steve Albini, e un’etichetta (la Sub Pop) che ha fatto la storia del rock alternativo e che ha appena proposto sul mercato C’mon, loro undicesimo ed elettricissimo disco. Perché son qui a parlarne?

Perché in questo nuovo lavoro c’è Nothing but Heart la canzone più stramba, fascinosa e potente che mi stia capitando di ascoltare in questo periodo (che pure vede l’uscita di dischi interessanti, dagli Hot Tuna a Paul Simon passando da Steve Miller). Non si pensi a un brano dalla costruzione insolita, riccamente composto o virtuosamente ricamato e neppure a un testo dalle profonde suggestioni poetiche.

Minimalisti come d’abitudine, Sparkhawk e soci hanno inciso otto minuti di chitarra, voce e pochissimo altro, con un testo breve e ripetuto decine di volte, un’invocazione d’amore inconcludente e (probabilmente) non corrisposto: “I would be your king/ But you wanna be free/ Confusion and art/ I’m nothing but heart”. Una canzone con pochi guizzi, in effetti, eppure intensa e contagiosa nella sua forma decisamente demodé.

“Non sono altro che cuore” canta Alan, mentre alle sue spalle si innalza pian piano il muro del suono Low, staticamente trascinante, zeppo di ipnotica psichedelica. “Non sono  altro che cuore”, sussurra Alan, al punto da apparire un incrocio tra il Neil Young dell’epoca Rust Never Sleep e il Jeff Buckley più elegiaco. “Non sono altro che cuore”, strepita questo ragazzone cresciuto in una comune hippie dove i suoi genitori erano consumatori e sostenitori dell’uso abituale di Lsd. “Non sono altro che cuore”, confessa questo musicista, diventato negli anni un fedele mormone insieme alla moglie.

Quel richiamo ossessivo, da folle giullare dell’epoca dei transistor, dell’essere solo un “cuore”, ben si sposa all’insieme sonoro di questo brano, dolce come una filastrocca senza fine, straziante come una piaga dolorosa, struggente come una confessione inattesa. Certo è una canzone d’amore. Certo non dice nulla di così eccezionale. Certo non è rivoluzione sonora. Ma c’è un senso eterno-interno in quelle ripetizioni sempre più marcate, sempre più segnate. Il senso di uno sguardo che va sempre più giù, che s’inoltra dentro, in quel se stessi di cui si può solo dire di non essere “altro che un cuore”.