Nelle infinite storie di Francesco Guccini ci sono gli anarchici, Jan Hus, le statali della Padania dove correre per raggiungere l’amore, le osterie di fuori porta e le strade che corrono lunghe e diritte. Lui è – insieme a pochi altri – il bello e il brutto della canzone d’autore italiana. Nei suoi meandri c’è tanta Italia dagli anni Sessanta ad oggi, c’è tanta vita bolognese, tanta riflessione post-comunista e tanta voglia di mandare a quel Paese tutte le ambiguità per rifugiarsi nell’Appennino dolce e sereno di Pavana.



E ci sono tante, tantissime vicende personali. Nel 1990 esce Quello che non…, un album potente, con l’inconfondibile scrittura gucciniana nei testi e una forte capacità di trascorrere musicalmente da toni trascinanti a momenti introspettivi, un disco che interseca l’insensatezza della quotidianità con la fatica di un matrimonio che dura da tanto e che forse non regge.



La Canzone delle domande consuete è uno dei pezzi attorno a cui ruota l’album, canzone di incertezze, di mancanza di “centro”, di incapacità a trovare il bandolo della matassa di una storia d’amore. Canzone inquietante e d’inquetudine: “Ancora qui a domandarsi e a far finta di niente/ come se il tempo per noi non costasse l’uguale/ come se il tempo passato ed il tempo presente/ non avessero stessa amarezza di sale/ Se ci sono non so cosa sono e se vuoi/ quel che sono o sarei, quel che sarò domani/ non parlare non dire più niente, se puoi/ lascia farlo ai tuoi occhi, alle mani/…. Non andare… vai… Non restare…stai… Non parlare… parlami di te”. Musica sofferta, le solite chitarre acustiche e classiche, un sottofondo triste che tutto lega, con una voce  che ogni tanto cerca di liberarsi in una finta spensieratezza.



Nello stesso disco c’è Canzone per Anna. Pochi minuti nella vita di una donna sola. Una donna che vive senza un’amore. Una canzone che termina descrivendo il momento finale della giornata:

La luce incerta della sera fonde col buio che entra/ e presto si confonde tutto/ come a chi guarda senza un fuoco/ la luce accendi e in viso si disegna/ forse un sorriso che le labbra spiega/ come se fosse stato tutto un gioco/ Fa niente, danno in TV un programma intelligente/ ci vuole un tè aromatico e bollente/ e poi che il sonno arrivi a poco a poco”. Ecco come finisce una vita senza amore: nella speranza che il sonno arrivi “poco a poco” dopo un te serale. Senza nessuno che ti tenga la mano. Senza che il cuore si scaldi. Solo un passare dalla veglia al sonno.

L’incertezza (“Non andare… vai… Non restare…stai… Non parlare… parlami di te”) che conduce all’infinita solitudine (“ci vuole un tè aromatico e bollente/ e poi che il sonno arrivi a poco a poco”) non è forse una costante di tanti? L’amore, l’amicizia, non sono forse il più alto tentativo di essere accompagnati nella vita, visto che non siamo fatti per essere soli? Ma se anche questi traballano, dove ci si rifugia? Cosa da certezza al sentimento e al cuore, che è quella parte di noi che riconosce l’infallibile corrispondenza? Cosa lo rende saldo? Oppure il cuore, anche lui, mente?

Quell’anno Guccini interpretò alcune di queste canzoni al Premio Tenco. Lo intervistai a lungo per il Sabato, il settimanale per cui scrivevo. Tutto il nostro dialogo ruotò attorno a un tema: ma è possibile la felicità?
Qualcuno si fa ancora, nella musica italiana, questa domanda, oggi?