Pacifico è un cantautore dal curriculum strano, ma dal cuore che batte forte. Laureato, ha scritto tanto per altri e relativamente poco per se, sempre con una traccia di “sentire” autobiografico e non banale.
Pochi album all’attivo, solo cinque, (tra cui segnalerei “Musica leggera” e “Dentro a ogni casa”), molte collaborazioni (Celentano, Mannoia, Nannini, Venditti…), una buona scrittura testuale accompagnata a un gusto musicale che ruota attorno al De André degli ultimi dischi.
Napoletano nato a Milano, Gino de Crescenzo — all’anagrafe — ha appena pubblicato il suo ultimo lavoro, “Una voce non basta”, che vede a raccolta un bel gruppo di artisti Italiani accompagnarlo nell’interpretazione di quattordici sue canzoni, da Frankie Hi Nrg a Malika Ayane, da Samuele Bersani a Cristina Donà. Ci sono canzoni di pregio e grande inventiva (Second moon e Presto) e altre più di routine, ma soprattutto c’è un brano che entra di potenza inarrestabile tra le migliori canzoni pubblicate sino ad ora nell’annata musicale italiana: In cosa credi.
Due voci si rincorrono nel brano in questione, quella di Pacifico e quella di Manuel Agnelli (Afterhours) e nel testo scorrono immagini non facili:
“In una valle a due passi dal mare
Ora galleggia un paese
In una minestra scura
Di ruote, di corda, di navi, elicotteri e case.
Lo vedi che non c’è preghiera,
Che non c’è muro forte abbastanza,
E non c’è altezza né distanza, che basti
E allora in cosa credi?”.
Di fronte a una tragedia, di fronte all’incomprensibile quotidiano, all’incrociarsi di affetti e paure, rabbie e ingiustizie, noi — ognuno — chi siamo?
Mentre la ballata si inerpica attorno all’albero dell’esistenza, dove tragedie, nascite e morti si avvitano, mentre archi e chitarre creano un tessuto drammatico e fremente, Pacifico e Agnelli danno voce a una canzone che farebbe bella mostra nella produzione di Ivano Fossati, con una tensione tangibile, che ricorda quella di Cosa sarà (Dalla-De Gregori) o quella implacabile di O que sera di Chico Buarque (riletta all’italiana proprio da Fossati). Insomma: qui è la tradizione della grande canzone italiana che bussa forte.
“Non hai una frase, una parola chiave?
Un altare per inginocchiarti,
Una statua antica da baciare?”
«È una canzone nata velocemente», ci ha raccontato lo stesso Pacifico, colto per una breve intervista un paio d’ore prima di una sua esibizione milanese, «in mezz’ora non di più. Sono stati giorni in cui si son inseguiti tanti fatti. Alla televisione vedevo queste immagini della tragedia di Fukushima, con una vallata in cui rifluivano nella melma animali, automobili, baracche, corpi ed elicotteri, tutti trasportati dall’acqua annerita. Erano giorni in cui vivevo anche personalmente insieme momenti di grande gioia e di profondo dolore. Erano giorni in cui chiedersi in cosa si può credere e sperare era la cosa più urgente, più impellente, più umana…».
Ci sono sempre giorni in cui, implicitamente, le mezze risposte inciampano e i medicamenti occasionali, per quanto intensi, non guariscono. Ma quali sono i nostri sotterfugi esistenziali? Come facciamo a riempirci la vita di risposte-non-risposte?
“E le parole, tutte questa parole?
Questi libri di avventura e amore
Sono tetti di paglia, rifugi, trincee
per resistere a tanto insistito dolore
E gli abbracci, i sorrisi,
e le candele accese
i pochi mezzi di cui disponiamo,
le nostre piccole armi
E allora in cosa credi?”
In cosa credi: che razza di domanda. Inutile, fastidiosa, noiosa, saccente, faticosa, antiquata. Eppure sempre attuale, sempre presente. In cosa credi: canzone di autenticità fastidiosa, di semplice e trasparente sincerità, anche nel suo povero riconoscere l’immensa debolezza e grandezza dell’uomo. C’è dentro la vita che urge e non si può fare e meno di viverla, con gioia o disperazione perché la vita…:
“È una sfuriata e non resiste appiglio, e ricomincia tutte le mattine.
Si vive, è solo questo, si vive e non c’è altro da fare.
Ogni giorno è inaspettato,
E tutto arriva senza spiegazioni e ti confonde con le emozioni.
E ti commuove e non dà soluzioni”
Ci sono ancora canzoni capaci di domande? Di sfide in un certo senso finali? Finalmente si. E come reagisce il pubblico di fronte a queste parole? Pacifico, come reagiscono i tuoi spettatori, soprattutto i piu giovani…? «Per ora sto presentando questo album solo in alcuni show case, nulla di troppo teatrale o impegnativo. Eppure questa canzone, anche se eseguita con semplicità quasi acustica, provoca un silenzio profondo. Le domande che cerco di portare in scena sono le domande di un uomo che tra poco avrà cinquant’anni eppure vedo che in un certo modo attecchiscono anche tra i diciottenni che mi osservano, mi ascoltano. E vedo che la canzone un poco ritorna ad assumere quella funzione di provocazione a una riflessone sincera che aveva qualche decennio addietro…».
E tu, Pacifico, anzi, tu, Gino — se si puo scindere: l’uomo più che l’artista — di fronte a quelle domande, come te la cavi? «Difficile rispondere. Le domande ti costringono sempre a entrare in una sfera che potremmo dire di preghiera. A volte sacra, a volte religiosa, a volte inconsapevole. Credo che tutti quanti si rivolgano a un ignoto oppure a una presenza nota, perché è quasi impossibile farne a meno. Inutile mentire: siamo tutti fatti con questa ansia dentro, questa voglia di parlare sperando che qualcuno possa ascoltare».
E quella frase della tua canzone, “Credo alla stranezza del tutto, all’istante fatale in cui tutto si compie, che sia nascita, amore, morte o incontro”, cosa volevi lasciare a chi ascolta? «Ma, forse il senso della potenza che c’è in quell’infinito mistero che chiamiamo vita…».