Il Washington Post (abbreviato “Wapo”), cioè il drago che custodisce la caverna del Partito Democratico in Usa (mentre il New York Times è un leone un po’ più defilato e aristocratico), ha reagito a caldo alle elezioni italiane buttandola in geopolitica: la vittoria conservatrice è diventata una tessera nel mosaico delle nuove e pericolose tendenze europee (euroscetticismo, atteggiamenti morbidi verso la Russia ecc.). Oltre a qualche disinvoltura (si trascura l’atlantismo meloniano), quella di Wapo è essenzialmente una mossa distrattiva perché il messaggio europeo è pertinente, piuttosto, alla politica interna americana. Dove si prepara quello che i Democratici percepiscono da mesi come, secondo una delle pittoresche immagini della lingua americana, un “deragliamento ferroviario al rallentatore” (l’atmosfera da incubo consiste nella lentezza del movimento, che crea un’aria di inevitabilità): cioè il possibile sorpasso repubblicano alle elezioni di medio termine a novembre. Se ciò si verificasse l’Italia si troverebbe nell’insolita posizione di apripista: dalla periferia europea vengono i movimenti che poi si fanno sentire nel cuore dell’impero.



E si sono percepite perfino alcune somiglianze stilistiche negli ultimi tempi, fra i così diversi mondi politici al di qua e al di là dell’Atlantico: come il passaggio dalla classica mossa del carezzare il pelo all’elettorato (in nome della demonizzazione degli astensionisti) a una certa tendenza a fargli il contropelo, quando si è cominciato a capire che gli elettori rischiavano di non votare come ci si aspettava.



Ne è un esempio l’accenno di alcune settimane or sono, in uno dei giornaloni italiani, alla tendenza dei nostri elettori all’“analfabetismo” (per la serie: non basta votare, bisogna anche vedere se si tratta di un voto “intelligente”); o la battuta sferzante, in un articolo di Wapo, sugli elettori americani che spesso “non afferrano bene i nessi causali”. Ma nelle comparazioni politiche le differenze sono almeno tanto importanti quanto le somiglianze e, a parte le dimensioni ovviamente differenti (elezioni nazionali in Italia, verifica preliminare delle forze in gioco in Usa), quello che accadrà a Washington sarà più risolutivo di ciò che è appena accaduto in Italia.



Perché in Italia si vota solo quando si verificano alcune complicate congiunzioni astrali, e quando si è abbastanza sicuri che i risultati del voto, qualunque essi siano, potranno essere se non rovesciati almeno rimpastati nei negoziati tortuosi che precedono l’insediamento, mentre in Usa si vota secondo scadenze immutabili; e chi vince, vince (magari dopo qualche sommossa). Così le parti si rovesceranno, e l’ottobre-novembre italiano (presumibilmente ancora indaffarato nel mettere insieme il governo) guarderà con grande attenzione al novembre americano. Il quale ultimo naturalmente potrà riservare sorprese e smentire i sondaggi.

In effetti è per questo che le previsioni sono poco interessanti: quando si realizzano, tutti le accolgono con aria annoiata; e quando no, è la gara al: “Eppure io avevo espresso dei dubbi”. Il vero rischio – quello che vale la pena di correre – è il rischio della profezia (“Non disprezzate le profezie”, scrive san Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi, 5,20). Allora ecco qui una profezia, con licenza “poetica” (senza aspettare le profezie fra qualche anno, quando tanti esperti ci spiegheranno che è successo quello che è già accaduto): il novembre 2022 prepara il quadriennio repubblicano in Usa, e il suo presidente non sarà l’Innominabile che peraltro ha reso possibile questa vittoria.

Ma bando a previsioni e profezie: quelle che contano sono le analisi (o anche solo i loro modesti tentativi). Esiste una profonda similarità fra il popolo elettorale d’Europa e quello degli Usa; e per capirla si deve partire dall’intuizione di alcuni pensatori originali e isolati (come Ernst Jünger, Noam Chomsky, José Saramago) secondo i quali il primo avversario di ogni governo è la sua propria popolazione; ma l’analisi a questo punto può andare oltre. Cioè: la mossa più insidiosa di ogni governo per tenere a bada la sua popolazione è quella di persuaderla a diventare l’avversario di sé stessa, sforzandola a parlare con il linguaggio, per lei innaturale, dei media rispettabili e allineati: i “programmi di governo”, le “realtà economiche”, “la situazione internazionale”, ecc. Insomma, si vuole farla parlare nel politichese che viene dall’alto.

Solo che i politici professionisti sono capaci di tenere a bada questo gergo pseudo-colto perché sanno bene che il loro lavoro non ha veramente a che fare con ciò (i programmi sono carta straccia, gli sviluppi economici sono fuori dal loro controllo, la situazione internazionale è già cambiata nel momento in cui la si descrive); si tratta invece di suscitare nelle persone le emozioni, le identificazioni istintive, il contatto con ciò che – bello o brutto che sia – uno ha veramente dentro di sé. L’inflazione e fenomeni simili piombano dal cielo o salgono dagli inferi, e nessun uomo (o donna) di governo può controllarli appieno. La vera scelta dei politici è fra l’identificare e ravvivare le emozioni profonde, e vincere; o ripetere lezioncine intellettualistiche, e perdere.

In certi momenti (i momenti delle svolte) la popolazione smette di vergognarsi di ciò che è (un insieme variegato di individui che hanno un cuore oltre che un cervello), cessa di imitare i tecnicismi degli opinionisti, e rivendica le proprie impressioni generali senza attenderne la prova scientifica. Perché in effetti quello che è in gioco non è un coacervo di impressioni e di emozioni incontrollate, non è la cosiddetta irrazionalità: è una visione delle cose. E la popolazione (in Italia come in Usa come altrove) ha di fronte a sé una società in cui (sintetizziamo) gruppi di ideologi stanno provando a cambiare aspetti essenziali della natura umana senza nemmeno rendersi ben conto che lo stanno facendo, e concependo il proprio compito come una serie di piccoli e più o meno sconnessi esperimenti di ingegneria su quel delicatissimo organismo psicofisico che è l’essere umano. Tale sforzo non convince una parte consistente della popolazione, la quale comincia a far sentire il suo rifiuto. E ciò che sta accadendo non è nulla di più – ma anche nulla di meno – di questa esigenza di riconsiderazione dell’umano.

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