Tra le novità del quarto Decreto aiuti troviamo i benefit aziendali esentasse: si innalza per il 2022 il tetto dell’esenzione fiscale dei cosiddetti “fringe benefit” aziendali, fino a 3.000 euro. Tale misura mira a incrementare gli stipendi dei lavoratori tramite il rimborso anche delle utenze (acqua, luce e gas). Questo “anche” mi crea qualche preoccupazione, poiché sappiamo che il welfare aziendale oggi è l’unica forma di erogazione che il datore di lavoro può dare al dipendente, che non è considerata reddito da lavoro, e che quindi non ha cuneo fiscale ed è cessione di beni e servizi, non di moneta. È il datore di lavoro che si prende carico di una spesa di natura sociale del dipendente.



La strutturazione della nuova soglia  potrebbe per esempio portare  all’ammodernamento di alcuni servizi da sempre centrali nel welfare aziendale, come l’assistenza sanitaria integrativa che in situazione odierna è diventata fondamentale a tutela della lavoratrice e del lavoratore che spesso non hanno reddito sufficiente per poterselo permettere. E però sappiamo che con i flexible benefit si sottrae un crescente imponibile alla tassazione. Fino a quando il Fisco non vorrà verificare se le prestazioni offerte siano di vero valore sociale e interesse pubblico bisogna studiare bene la trasformazione del welfare aziendale nel nostro Paese, da esperienza di nicchia a mercato di massa accessibile a tutte le imprese, comprese le Pmi, il 95% delle aziende italiane.



Insomma, i numeri del welfare aziendale impongono studi approfonditi e non semplificativi come appunto è per il 2022  con il pagamento delle bollette. La defiscalizzazione e la decontribuzione previdenziale introdotta nell’erogazione, per esempio, del premio di risultato contrattato hanno un costo sempre più rilevante per la collettività. Il Fisco prima o poi deve valutare al meglio se il mancato gettito sia veramente giustificato da iniziative di valore sociale e di interesse pubblico. Oggi siamo arrivati ad almeno 40mila contratti con il premio di risultato, e la platea potrebbe aver raggiunto 4 milioni di lavoratori. Se il premio medio è intorno a 1.300 euro per dipendente, è facile approssimare un’erogazione di premi di risultato di qualche miliardo, almeno una decina negli ultimi tre anni, un terzo dei quali – quelli riscossi con flexible benefit aziendali – esentasse. E senza contributi previdenziali. Prima o poi dovremo aspettarci una valutazione sui servizi offerti anche coinvolgendo Inps. La moltiplicazione di attività ludiche o ricreative potrebbe ricevere uno stop giustamente. E anche il fiorire dei provider fornitori delle soluzioni welfaristiche per le aziende potrebbe vedersi ridimensionato, sottoposto a un’attenta valutazione di qualità.



Molti degli operatori attivi nel mercato del welfare aziendale si sono un po’ improvvisati:  a volte, senza le necessarie competenze e professionalità, offrono solo una piattaforma web per mettere a disposizione i servizi da acquistare, ma non basta per essere dei veri partner delle aziende che vogliono fornire piani di welfare per i propri dipendenti. È necessaria  una sorta di vigilanza su un mercato che oggi mette sullo stesso piano un buono pasto con un abbonamento in palestra, che di fatto equipara il pagamento dell’asilo nido per i figli con un corso per apprendere l’arte della preparazione del the e ora si aggiunge il pagamento delle bollette. Insomma, già servizi alla persona e ricreazione non sono la stessa cosa e comunque con l’emergenza si giustificano anche scelte molto opinabili e che nascondono il vero problema del costo della vita aumentato (bollette record perché?) che sottraggono al lavoratore la scelta di servizi per lui e la famiglia fondamentali.

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