Il Decreto lavoro è un capolavoro di urgenze pseudo/sanate. Ma tutto questo non basta, occorre trovare – con coraggio e fantasia politica – la soluzione a questa impasse dei provvedimenti non strutturali  a sostegno delle lavoratrici e lavoratori. Un consiglio: la Presidente  riscriva l’agenda del Governo trascurando le scelte identitarie di cui il Paese non sente il bisogno e scegliendo alcuni importanti target di modernizzazione su cui aggregare un consenso più qualificato e più vasto soprattutto con uno sguardo concreto sulle famiglie.



Qui ci prendiamo la licenza di analizzare l’art. 40 della legge in Gazzetta Ufficiale. Sebbene negli ultimi anni il legislatore abbia spesso innalzato il limite di non imponibilità dei fringe benefit, la regola generale e su cui bisogna fare affidamento è che possano essere esenti da tasse e contributi i vantaggi che hanno un valore uguale o inferiore a 258,23 euro. Nella maggior parte dei casi il welfare ha dei limiti di esenzione molto più alti, però deve sottostare comunque a una rigida regolamentazione. Il provvedimento in questione  prevede  un aumento della soglia di defiscalizzazione dei fringe benefit per l’anno in corso, ma solamente per lavoratori e lavoratrici dipendenti con figli a carico. Come per il 2022, anche quest’anno è possibile ottenere dalla propria azienda fino a 3.000 euro attraverso questo canale, ma a condizione, appunto, di essere genitori.



Il welfare d’impresa rischia di essere  esclusivamente come un mezzo per incentivare la natalità e l’occupazione femminile? È necessario invece  che l’opportunità del welfare aziendale vada oltre i fringe benefit e si inizi a lavorare a interventi strutturali anche e soprattutto usando la leva fiscale. Si potrebbe innalzare il vantaggio fiscale esclusivamente nel caso in cui i fringe benefit siano utilizzati per l’acquisto di servizi. In questo modo si potrebbero incentivare le prestazioni sociali a scapito dei buoni acquisto e buoni spesa. Anche allo scopo di sostenere le micro e le piccole imprese, sarebbe poi cruciale prevedere sgravi fiscali e incentivi per quelle che fanno welfare “in rete”, anche e soprattutto con il territorio. Vi sono iniziative che – attraverso la contrattazione, la collaborazione tra le parti sociali e la costituzione di reti di impresa o multi-stakeholder – coinvolgono  il tessuto economico e imprenditoriale locale, il Terzo settore e l’attore pubblico, allo scopo di creare servizi per i lavoratori, le loro famiglie e, in alcuni casi, anche per il territorio, come gli autori del Quinto Rapporto sul secondo welfare riflettendo sul ruolo della cosiddetta “filiera corta” auspicano si sviluppino poiché hanno analizzato le connessioni tra le pratiche di welfare promosse dalle imprese e la questione dello sviluppo sostenibile.



Le organizzazioni produttive sono  chiamate a giocare una partita di rilievo anche per quanto riguarda il raggiungimento degli Obiettivi definiti dall’Agenda 2030 come la Parità di genere, Lavoro dignitoso e crescita economica  e Imprese, Innovazione e Infrastrutture. Ricordiamo  che sul piano normativo nel nostro Paese l’unica forma di regolamentazione della materia è di carattere fiscale e previdenziale (Santoni 2018; Treu 2020). La materia è infatti regolata dal Tuir, il Testo unico delle imposte sui redditi che – sin dalla sua approvazione (nel 1986) – ha previsto importanti agevolazioni. La legge non offre alcuna definizione del concetto di “welfare aziendale“, ma – negli artt. 51 e 100 del Tuir – sviluppa un corposo catalogo di beni, opere e servizi (definiti “di utilità sociale”), il cui valore gode della totale o parziale esclusione dalla formazione del reddito da lavoro dipendente, oltre a essere in genere deducibile dal reddito d’impresa.

È dunque importante nella riforma fiscale in fieri integrare il Tuir e rendere strutturali i benefici  che riguardano la tassazione dei premi di produttività e dare impulso al welfare aziendale convertendo il salario di produttività  in prestazioni di assistenza ed educazione  riferiti al nucleo familiare, di cui ovviamente non fanno parte solo i figli, ma anche anziani e non autosufficienti.

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