Personaggi fragili, architetture simmetriche, coalescenza di epoche, colori e psicologie tradotti in scenografie: questo è il mondo di Wes Anderson, uno dei massimi autori di cinema dagli Anni Zero con una cifra così personale da essere fortemente divisivo, ma proprio per questo fondamentale per la sintassi del cinema del nuovo secolo.
Perché i suoi sono sentieri così stretti e personali da lasciare indietro chiunque non riesca a entrare immediatamente in contatto con il suo mondo: che è un mondo chiuso e limitato nelle caratteristiche fondanti ma che trova in se stesso le sue intime ragioni di esistenza. Mondi narrativamente chiusi, insomma (e infatti è vietata nei suoi film qualsiasi lettura politica); ma filosoficamente aperti e illimitati, perché ipoteticamente infiniti nella loro narrazione.
Fino al 7 gennaio presso la fondazione Prada Milano c’è l’occasione più unica che rara di perdersi fisicamente in quei mondi: anzi, in quel mondo, visto che – in collaborazione con Universal Pictures International Italy – la Galleria Nord di Fondazione Prada ospita Wes Anderson – Asteroid City: Exhibition, ovvero le scenografie originali dell’ultimo film in ordine di tempo del regista di Houston, ovviamente proprio Asteroid City, uno dei suoi più discussi. La mostra è un’esperienza a dir poco particolare, nella quale perdersi tra i mille dettagli sparsi e le ricostruzioni storiche del periodo del film, gli anni Cinquanta.
Di certo, una mostra museale non è lontana dal cinema di Anderson per la sua stessa idea di messa in scena: l’autore de I Tenenbaum collabora da tempo con Milena Canonero (costumista italiana vincitrice di ben quattro premi Oscar) e Adam Stockhausen (scenografo statunitense vincitore di un premio Oscar), ed è noto per le sue scelte stilistiche ricorrenti, come i rapporti d’aspetto con ottiche grandangolari che permettono di ottenere un campo visivo quanto più ampio possibile per organizzarci dentro personaggi, spazi e azione, in un ben preciso ordine interno all’immagine.
Negli spazi della Fondazione Prada c’è tutto Anderson, allora, per un’esperienza realmente immersiva che restituisce il suo senso dello spazio e del colore, dalle rocce infuocate del deserto fino ai cactus giganteschi, dalla vasca che cita Psycho alla cabina telefonica con lo sguardo di Scarlett Johansson; e ovviamente i costumi, che si associano alle scenografie con le loro palette ben assortite e sempre pensate per esplicitare con il cromatismo i pensieri dei personaggi.
Il mondo evocato da Anderson, sul set come nella mostra di Fondazione Prada, è incredibilmente allo stesso tempo un mondo familiare e qualcosa di perturbante, e surreale, e lontano: eppure è da questo incredibile cortocircuito che nasce il suo fascino. Perché ogni simmetria, ogni prospettiva, ogni dimensione materica è frutto di una ricercatezza compositiva assolutamente unica, mentre il racconto dei film combina le paure sociali con quelle intime.
Asteroid City, presentato nel 2023 al Festival di Cannes, è stato aspramente criticato dalla critica più da salotto, ma anche da buona parte degli estimatori del suo regista: perché è sembrato un punto di non ritorno per un’estetica fin troppo cristallizzata in determinati canoni, un contenitore senza niente dentro, un McGuffin che non conduce a nulla.
Ma proprio vivere o rivivere i plastici paesaggi che hanno ambientato la storia del film potrebbe farlo apprezzare come pochi hanno fatto all’uscita: gli anni Cinquanta di Asteroid City guarda(va)no allo spazio così come guarda(va)no alle novità, alla tecnologia che sembrava aprire un futuro radioso, alla ritrovata prosperità dopo la guerra. Insomma, un’emozione condivisa di ottimismo percorsa però da un brivido, perché c’era anche in tutto la sensazione di un trauma che permeava tutto, trauma nascente e strisciante in un periodo nel quale chiunque negli Stati Uniti era ossessionato dai comunisti così come dagli alieni.
È vero che Wes Anderson ama i close up simmetrici, ma la sua è una dichiarata volontà di esercitare una metanarrazione senza freni, un virtuosismo registico che si veste di dinamismo, leggerezza, fascino, e della malia purissima del cinema fatto di nudo sguardo. Uno sguardo che si volge al passato, a quel passato americano un attimo prima dell’avvento della volgarità del reaganismo, che in Asteroid City si trasforma in messa in scena così apertamente metanarrativa da essere il passo immediatamente precedente a quella teatrale – non per niente, dopo il film Anderson è passato a firmare la regia di La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, Il Cigno, Il Derattizzatore e Veleno, quattro cortometraggi adattamenti di racconti di Roald Dahl, piccoli gioielli che spostano il cinema sui binari (letterali) del teatro, con soluzioni visive in continuo mutamento nella loro apparente immobilità tra sfondi cartonati, voce off e inquadrature fisse.
Alla fine, quello che conta è però che aggirarsi tra gli ufo, i dispenser, la pompa di benzina, i tableaux vivants di Asteroid City restituisce il senso profondo della nostalgia andersoniana: che risiede nel rimpiangere la nostra immaginazione infantile perduta, un immaginario forse più innocente ma di sicuro perduto, per un solo, immenso istante.
Come un ultimo ballo, un’ultima preghiera, un rito finale di purificazione. Poi il film finisce, la mostra finisce: e tutti, di nuovo, torniamo a vivere.
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