Una delle curiosità del catalogo Netflix, ma anche della loro strategia produttiva e distributiva, è la presenza di cortometraggi diretti da grandi autori per affermare un ruolo importante nel sostegno del cinema d’arte. Di solito sono operazioni che arrivano a sorpresa come Anima, il cortometraggio musical di Paul Thomas Anderson su musica di Thom Yorke oppure, ancora più radicalmente What Did Jack Do?, il cortometraggio diretto da David Lynch.
Al centro della scena (un diner dentro una stazione in stile vagamente Bauhaus) ci sono un detective – interpretato dallo stesso Lynch – e una scimmia (la cui voce e il cui labiale sono forniti sempre dall’autore). Il primo interroga la seconda sospettata di un curioso omicidio passionale, con al centro una gallina dal curioso nome di Tootatabon.
L’operazione in realtà non è un marchio Netflix: il film venne prodotto nel 2016 da Fondation Cartier pour l’Art Contemporain che lo presentò in prima mondiale l’anno dopo, in occasione del lancio di un libro fotografico di Lynch. Poi dopo un passaggio in un festival americano nel 2018, il corto è riapparso grazie a Netflix e al lavoro di corteggiamento che sta facendo sul regista americano dopo l’acclamazione della terza stagione di “Twin Peaks” con cui What Did Jack Do? condivide l’ispirazione, evidentemente, anche in senso cronologico.
Il breve film (17′) pare proprio uscito dagli estratti più rarefatti della serie: bianco e nero minimale e contrastato come un film muto, scenografie e tagli di luce che omaggiano l’espressionismo, dialoghi e situazioni narrative (oltre al personaggio del detective) che invece prendono a modello il noir americano classico con un’atmosfera però che galleggia sempre tra surrealtà e paranoia, come in un dramma di Harold Pinter. E l’effetto primitivo con cui la bocca di Lynch dà la parola alla scimmia Jack acuisce questo senso di straniamento ma anche di fedeltà al lato umano presente anche nelle fantasie più assurde.
What Did Jack Do? è chiaramente un compendio in sedicesimi di questa fase della carriera di Lynch, che proprio la terza annata di “Twin Peaks” ha portato all’acme, in cui la creatività e un certo distacco e disprezzo per certi meccanismi produttivi danno vita a oggetti sbilenchi, inclassificabili ma anche più “comprensibili”, meno propensi a diventare cacce al tesoro per esegeti. È un gioco certo, un divertissement a partire dagli stilemi e dalle proprie maniere visive, in cui si rincorrono i proverbi, le frasi fatte, la parodia dell’autorità, l’ossessione per gli animali e per i sogni, la musica.
Ma Lynch, anche in questo esercizio di (o sullo) stile, sa innervare anche piccole scene o piccoli progetti di emozioni sotterranee: come la malinconia che affiora dalla canzone che Jack canta per mostrare al detective il suo amore per Tootatabon. Come un piccolo spin-off proprio di quella magnifica serie che nella sua ultima stagione ha dimostrato come l’inquietudine e il perturbante, come l’onirico e il surreale non siano all’opposto dei sentimenti, della semplicità d’animo che viene solo dalla maturità.