Ora che anche il giudice del lavoro ha respinto il ricorso del Sindacato contro l’avvio dei licenziamenti alla Whirlpool di Napoli – ritenendo che nel suo comportamento non si riscontrano comportamenti antisindacali, dopo l’espletamento delle procedure previste dalla legge – le lettere di cessazione del rapporto di lavoro cominciano a essere inviate, unite alla disponibilità dell’azienda a corrispondere 85mila euro ai dimissionari volontari, o ad assumere presso il suo sito di Cassinetta di Biandronno chi degli operai napoletani volesse andarvi a lavorare.
È comprensibile l’amarezza dei dipendenti dello stabilimento partenopeo che hanno lottato da oltre un anno per impedire un esito che ora si profila come inevitabile, ma un risultato significativo la loro mobilitazione l’ha ottenuto ed è quello che ha portato il Governo a impegnarsi a fondo per individuare una soluzione occupazionale fondata sulla reindustrializzazione della fabbrica.
I contatti in corso con alcune grandi imprese che vorrebbero insediare loro attività nel plant che sarà dismesso dalla Whirlpool – imprese coordinate in un nuovo progetto industriale da Invitalia che si aggregherebbero in una struttura consortile insieme ad alcune pmi – sono decisamente promettenti da quanto sinora emerso al tavolo ministeriale coordinato dalla Sottosegretaria Todde, ma i tempi di avvio delle produzioni sostitutive non sembrerebbero immediati, aprendo così una fase temporale di disoccupazione dei lavoratori interessati che purtroppo potrebbe anche prolungarsi.
Il Ministro Orlando aveva dichiarato, se la memoria non ci inganna, che sarebbe stata studiata una soluzione ad hoc per gli addetti dell’azienda passati in disoccupazione e con il trattamento previsto in queste circostanze. Ma in ogni caso – fermo restando che dovrebbe essere messa a punto una soluzione normativa eventualmente applicabile poi in altre situazioni simili, e in attesa che si approvi a partire dalla Legge di bilancio all’esame del Parlamento un sistema di ammortizzatori universali che favoriscano sostentamento dignitoso e corsi di riqualificazione, ove necessari e finalizzati alla rioccupazione, a chi perdesse il lavoro – il nodo vero da sciogliere nel caso specifico è nei tempi e nel progetto industriale di coloro che vorrebbero insediarsi nell’area.
I nomi sinora noti della Hitachi e del Gruppo Adler che guiderebbero la struttura consortile impegnata nella reindustrializzazione del sito sono di assoluta garanzia, dato il loro standing societario di livello internazionale e la loro già forte presenza produttiva in Campania.
Si tratta allora di verificare – come sicuramente stanno già facendo da tempo i tecnici di Invitalia – quali siano le produzioni sostitutive, le loro prospettive di mercato, i livelli occupazionali prevedibili nella fase di avvio della newco e, a regime, le ipotesi di redditività attese.
Certo, se i settori fossero quelli della mobilità sostenibile (automotive e trasporto ferroviario?), la fase di transizione tecnologica in cui essi sono ormai inseriti con il progressivo passaggio dalle motorizzazioni termiche a quelle elettriche, e con la costruzione di treni all’idrogeno, non sembrerebbe favorire tempi brevi per i nuovi investimenti nell’area ex Whirlpool, perché sarebbe necessario comprendere meglio la direzione di marcia, e soprattutto i tempi di percorrenza dei due comparti prima richiamati, dalle fasi tecnologiche ben note a orizzonti ancora non ben definiti.
Comunque, anche questa vicenda rende ormai ineludibile a livello governativo e parlamentare la messa a punto di strumenti di gestione e soluzione delle crisi aziendali che devono comportare (sempre) il passaggio da occupazione a occupazione per tutti coloro che ne fossero colpiti.
Su questo punto non ci si può dividere fra i partiti dell’attuale maggioranza e all’interno delle singole forze politiche. Si devono analizzare a fondo senza pregiudiziali ideologiche soluzioni pragmatiche, ma sperabilmente efficaci perché gli anni che ci attendono (e già iniziati) saranno un lungo periodo di transizione da un assetto tecnologico a un altro; e non è pensabile, pertanto, che tutti coloro – e sono migliaia – che lavorano oggi nel comparto automotive e nei suoi sottosettori più colpiti dai mutamenti tecnologici debbano essere abbandonati al loro destino, sopravvivendo con sussidi di Stato da disoccupati o da sottoccupati, in una sorta di eterna riserva indiana, come ad esempio gli oltre 1.600 lavoratori dell’Ilva in amministrazione straordinaria che a Taranto dal settembre 2018 vivono con le loro famiglie con il trattamento di cigs, integrato da un contributo statale da approvarsi peraltro ogni anno.
Una società industriale avanzata e un Paese veramente democratico non possono assolutamente permetterselo. E non può permetterselo, naturalmente, un Paese come l’Italia che, sia pure sempre più secolarizzato, continua a dichiararsi cristiano.
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