La storia dell’industrialismo in salsa meridionale è giunta la capolinea con la vicenda della Whirlpool, una storia di decenni di lavoro sudato e costruito secondo i dogmi declamati da anni come certezza di successo. Azienda nella mani di una multinazionale, produzione top di gamma, tassi di produttività al massimo, assenteismo insistente. Efficienti, seri, professionalmente apprezzati i circa mille lavoratori, tra diretti e indiretti, sono stati scaricati senza appello. Chiuso. Le “scelte del mercato” sono alla base delle decisioni del management che sostanzialmente ha programmato volumi di vendite irrealistici per un tipo di prodotto che ha invece mostrato di non avere appeal. E così, senza tener conto dei meriti, la produzione della roba economica “non top di gamma” finisce e resta altrove e a casa vanno in tanti, troppi.



La storia ha una morale profonda, perché il fallimento di Governo, sindacati e istituzioni in generale nel non riuscire a trattenere la multinazionale assomiglia al tentativo disperato di un amante abbandonato che offe ogni cosa, soldi compresi, pur di restare assieme e ne riceve un netto rifiuto. Una condotta irrazionale quella del Governo (e dei Governi passati) che tende a dimenticare il perché delle scelte, che è semplice. L’interesse vince su tutto, anche sull’amore dei lavoratori, e le scelte delle multinazionali sono dettate dall’esigenza dei manager di dare profitti sempre maggiori agli azionisti (spesso fondi speculativi) che li possiedono, i decisori seguono logiche sostanzialmente antisociali e non hanno una visione solidale degli affari. Anzi, difendere il profitto (non l’economicità della gestione) è la religione laica con cui bisogna fare i conti.



Il che avrebbe anche senso, se le stesse imprese multinazionali non avessero usufruito di sgravi e contributi e pagassero tasse congrue sugli utili, invece di usare filiere societarie che finiscono irrimediabilmente sull’asse Dublino/Delaware per garantirsi zero imposte. Uno Stato ricco fiscalmente potrebbe offrire strumenti congrui per ammortizzare le chiusure e rilanciare le attività. Ma tant’è, la distrazione della Commissione Juncker, il mancato pensiero sugli insediamenti produttivi nelle aree del Mezzogiorno, produce questo effetto, ovvero nulla si può (a legislazione vigente) contro la granitica volontà di difendere il proprio interesse al di fuori di ogni logica sociale, rifiutando anche la mera gradazione nelle scelta stessa della chiusura (ben si poteva spostare la produzione da altri siti gradualmente e supportare l’azienda e i lavoratori nel mentre).



Quel che ora serve è una risposta straordinaria per quei lavoratori. Una risposta che deve venire dallo Stato tramite le sue tante emanazioni dedicate agli investimenti (dal gruppo Cdp a Invitalia), uno Stato che recuperi la sua antica vocazione di motore di sviluppo e che deve immediatamente fare scouting per allocare in quel sito, e non altrove, un’iniziativa produttiva che mantenga inalterati i livelli occupazionali. Il sistema delle imprese legate ai gruppi controllati dal ministero dell’Economia deve essere messo al servizio di questa esigenza e si deve dare un segnale efficace ed effettivo al territorio Campania, che secondo Eurostat (notizia surclassata da altro, quasi volutamente) è la regione più a rischio povertà d’Europa. Avete letto bene, oggi nel 2019, la regione più a rischio povertà in Europa (Bulgaria e Romania comprese).

Sul futuro serve chiarezza. Nel Mezzogiorno deve investire lo Stato, in maniera economicamente sostenibile, e i privati devono poter investire a lungo termine con sgravi totali sulle imposte sui redditi d’impresa (con garanzie credibili), per essere efficaci e realistici si deve accettare il fatto che siamo in competizione con Bulgaria e Romania (che hanno tassazioni in pratica inesistenti) per i nuovi insediamenti in Europa e che se non avremo un set efficace di offerte per avere incrementi occupazionali, in periodo di crescita globale azzerata, difficilmente avranno successo i proclami sul Mezzogiorno.

A questo servirebbe un po’ di deficit in manovra e a questo serve lo Stato che in tempi eccezionali deve poter dare risposte eccezionali. Uno shock culturale e di investimento che farebbe crescere il Paese nella sua interezza, darebbe fiducia ai cittadini e di ai lavoratori. Diversamente avremo tanti percettori di reddito di cittadinanza o Ape social, tante quote 100 nel Mezzogiorno e nessuna politica industriale, avendo il timore di usare i soldi della collettività per creare sviluppo per non apparire statalisti ma finendo per rendere elemosinieri dello stesso Stato quei lavoratori che hanno dimostrato di essere capaci, meritevoli e innamorati del lavoro, rendendoli inattivi od obbligandoli a emigrare.

La lezione peggiore è questa. Ci sono risorse per chi non lavora (a volte approfittando), ma non per chi il lavoro lo sa fare e lo vuole fare. Uno Stato intelligente e dignitoso se ne accorgerebbe e comprenderebbe quanto è inaccettabile questo contesto. Ed è per questo che sulla vicenda Whirlpool ne va della dignità di tutti. Non solo degli operai e delle loro famiglie, ma anche e soprattutto del concetto di Stato e di chi lo governa.

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