È diventato un caso emblematico, un problema nazionale, uno di quelli che richiedono una strategia, una visione e una direzione. Stiamo parlando della Whirlpool, l’azienda multinazionale con 5 insediamenti produttivi in Italia che a pochi mesi dalla sottoscrizione di un accordo aziendale si è presentata al tavolo ministeriale e ha spiegato che loro, beh non è mica colpa loro, ma i calcoli erano sbagliati. Sei mesi fa avevano un piano che doveva garantire rilancio, sviluppo e futuro. Ora quegli stessi manager hanno spiegato che purtroppo i conti della sede di Napoli, circa 400 dipendenti oltre all’indotto, non sono a posto: quelle linee di produzione non garantiscono un rendimento in linea con gli altri stabilimenti e dunque vanno chiuse.
Dicevamo che non è un caso banale, uno dei tanti che in quest’ultimo decennio si sono succeduti nella penisola, ex Bel Paese. No, è invece un caso paradigmatico di una situazione alla quale tutti diciamo di dover porre rimedio, ma che fatichiamo davvero ad affrontare.
Il primo tema sul tavolo è quello dei piani aziendali di ristrutturazione e investimento. Ogni volta sono uno strazio, un tentativo di trovare intese su numeri che di norma sono stati calcolati su basi statistiche. Certo, nessuno conosce il futuro, e oggi tutto corre molto in fretta, ma se un management sbaglia così tanto nelle sue previsioni che in sei mesi passa da un piano di sviluppo a un piano di chiusura dell’azienda, allora il problema è uno e uno solo: quel management ha un’idea approssimativa della matematica (finanziaria), ma anche del marketing, dell’organizzazione delle vendite. Questo a voler dar per buone le spiegazioni fornite: perché se non fosse così saremmo di fronte a un vero e proprio caso di furbata ai danni della collettività. Anzi, diciamoci la verità: la proprietà della Whirlpool è straniera e quindi non ce la facciamo a pensar male fino in fondo, ma la sensazione è che quel management si stia comportando come un qualunque venditore di fumo, anzi come il mitico venditore della Fontana di Trevi per citare il massimo filosofo italiano del XX secolo, il grande e napoletano Totò.
180 giorni per passare da un piano, piuttosto ardito, che riceve sostegno e aiuti (cioè soldi nostrani), che chiude un accordo di rilancio, alla decisione che non ci guadagna abbastanza? Capiamo perché il mitico Giggino nostrano sia esploso in un clamoroso Accà nisciuno è fesso: lui, anche per esperienza familiare, sa bene come vanno certe cose e ha sentito l’odore tipico della “spaccata”. Non siamo mai stati teneri con lui, ma stavolta le sue colpe sono limitate: certo, potremmo dire che in un anno non ha ancora affrontato un piano complessivo di sostegno al sistema industriale, che ha fatto nulla per lo sviluppo del Sud, che le crisi aziendali si sono susseguite, ma diciamo, lui le ha di solito guardate con occhi… distratti. Tutto questo è vero: ma in questo caso la patacca finto Rolex gliel’hanno rifilata altri. E lo hanno fatto proprio a casa sua, a Napoli!
Con lui però l’hanno rifilata a noi, poveri italiani: ma forse la nostra colpa è di non chiederci se questo Governo sappia fino in fondo cosa significhi gestire una macchina complessa come la settima economia del mondo. Invece di inseguire vaniloqui su immigrati e finte invasioni…D’altronde va bene prendersi una patacca da un management che per essere eterodiretto, anzi esterodiretto, ha strane e inquietanti abitudini nostrane, ma non dimentichiamoci che se il polo produttivo di Napoli è così decisivo è per almeno due ordini di motivi: primo, perché in esso la collettività ha investito parecchio in termini di sostegno e aiuti diretti e indiretti. Secondo, la terra napoletana è una terra di dolore e di miseria per il lavoro, per il sistema industriale.
Insomma, il management Whirlpool è per lo meno sospetto di furbizia, roba da “prendi e soldi e vedi che puoi fare”. Ma da troppi anni noi, noi italiani dico, stiamo aspettando che le dichiarazioni elettorali e post e pre elettorali si trasformino in un qualunque piano di sostegno allo sviluppo del sistema produttivo italiano. Un progetto, un libro bianco finanche, un qualunque documento che dia l’idea che si sappia cosa fare dove andare; se vogliamo puntare sull’industria di punta o su quella a basso valore aggiunto; se crediamo in un sistema che coniughi economia, sociale e sviluppo sostenibile, oppure se pensiamo alla decrescita felice (o infelice, o alla crescita con qualche problema psicologico o di qualunque altra natura). Ecco, la colpa di Giggino non è di essersi fatto fregare (e noi con lui) da un gruppo di dirigenti che (scommettiamo?) tra un po’ saranno sostituiti e se ne andranno con una buonuscita calcolata sui risultati trimestrali della loro azienda: no, la colpa è di aver lasciato un pezzo della nostra Italia in condizioni tanto disastrose e tanto problematiche da doversi affidare anche a imprenditori che assomigliano paurosamente, almeno quando fanno le previsioni, al Mago Otelma.
Senza contare che a questo punto una domanda si fa strada anche nella mente più candida e innocente: ma ci sono ancora le condizioni, morali e di fiducia, per fare intese e accordi con imprese che hanno un orizzonte di decisione che arriva al massimo alla prossima stagione meteorologica?
Oggettivamente il caso Whirlpool è un caso emblematico: di una generale situazione di approssimatività, di un’imprenditoria che talora ha perso di vista il suo ruolo sociale per divenire status symbol di un modo di stare di fronte al mondo che cambia. Soli, decisi a godere del massimo, a sfruttare ogni occasione e poi pronti a mollare tutto per volare altrove. Non tutti, anzi: ma quei pochi sono in grado di fare danni grandi. E a loro si risponde solo facendo sistema e avendo chiara in testa la direzione di marcia per garantire sviluppo, lavoro e distribuzione del reddito.