L’indisponibilità della Whirlpool a offrire prospettive alla produzione delle lavatrici di alta gamma nello stabilimento di Napoli era già manifestatamente scoperta da alcuni mesi, comunicata per le vie informali al ministro dello Sviluppo pro tempore Luigi Di Maio nel mese di aprile, e successivamente camuffata all’interno di 5 presunte alternative presentate alle organizzazioni sindacali. Buona parte delle quali argomentate per il solo scopo di prefigurare come unica soluzione la riconversione produttiva dello stabilimento da affidare a un’altra cordata di imprenditori.



La gestione della vicenda da parte dell’azienda, che in pochi mesi ha disatteso gli impegni sottoscritti nel settembre 2018 che assicuravano la continuità produttiva in essere, e del ministro Di Maio, che in coincidenza delle elezioni europee ha evitato di affrontare con la giusta tempestività il cambio di rotta aziendale, giustifica abbondantemente le reazioni dei lavoratori coinvolti. Ma non evita il dramma della chiusura in assenza di un disegno imprenditoriale che si faccia carico di garantire alle condizioni possibili le produzioni in essere ovvero di guidare la riconversione dello stabilimento.



A monte di tutte questo esiste una profonda diversità di opinioni riguardo le prospettive di mercato per la produzione di lavatrici di alta gamma. Praticamente inesistenti per l’attuale proprietà, che pure anche negli anni recenti ha investito una consistente mole di risorse in questa direzione, diversamente da quanto affermano le autorità di governo e locali, alleate alle rappresentanze dei lavoratori nel sostenere la tesi opposta.

Un braccio di ferro che, per il momento, ha messo nell’angolo l’opportunità di prendere in esame la prospettiva di una riconversione industriale verso la produzione di container refrigeranti e un conseguente confronto con la nuova compagine industriale, la Prs svizzera in cordata con un imprenditore italiano, ritenuta peraltro inaffidabile dalle organizzazioni sindacali.



Come estrema ratio viene messa in campo come ipotesi alternativa l’acquisizione della azienda da parte di una cooperativa promossa dai lavoratori interessati, fiancheggiati da Invitalia spa (l’Agenzia statale per lo sviluppo). Riproponendo un modello di salvataggio, quello del “workers buyout”, già sperimentato con esiti in molti casi positivi in un centinaio di aziende manifatturiere per un totale di 8.000 dipendenti.

L’operazione, nel caso della Whirlpool non si presenta affatto semplice. I precedenti richiamati riguardano aziende di dimensioni ridotte, con fabbisogni di capitale più limitati (in genere con il concorso dei Trattamenti di fine rapporto dei lavoratori) e con dimensioni di prodotti e di mercati più accessibili. Per lo specifico del mercato delle lavatrici, richiederebbe comunque la partecipazione diretta o commerciale di un grande gruppo dotato di marchio, di tecnologie e di reti di mercato. Ma certamente la proposta ha il merito di mettere gli attuali proprietari di fronte alle loro responsabilità.

La credibilità di un piano di eventuale riconversione della produzione, cosa da non escludere a priori per qualsiasi attività manifatturiera, è legata soprattutto alla continuità nella presenza nel capitale da parte della Whirlpool, e alla disponibilità della stessa ad accompagnare gli impegni che verranno assunti per garantire le prospettive occupazionali dei lavoratori e dell’indotto. Questo potrebbe essere il terreno di una soluzione in grado di corrispondere agli interessi in gioco, e soprattutto di evitare un conflitto privo di sbocchi se non quello di offrire un adeguato sostegno al reddito per i lavoratori coinvolti.

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